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La Stampa Rassegna Stampa
26.09.2014 Oro nero: come si finanzia il Califfato
Analisi di Paolo Mastrolilli

Testata: La Stampa
Data: 26 settembre 2014
Pagina: 2
Autore: Paolo Mastrolilli
Titolo: «Quei barili venduti di contrabbando: così il Califfo finanzia la sua jihad»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 26/09/2014, a pag. 2, con il titolo "Quei barili venduti di contrabbando: così il Califfo finanzia la sua jihad", l'analisi di Paolo Mastrolilli.


Paolo Mastrolilli                   Abu Bakr al Baghdadi            


Una raffineria di petrolio in Iraq, sotto il controllo dell'Isis

«I soldi ricevuti dai donatori stranieri ormai impallidiscono rispetto a quelli che l’Isis riesce a raccogliere con il traffico del petrolio». Così, pochi giorni fa, una fonte del dipartimento di Stato descriveva le dimensioni del contrabbando di greggio gestito dai terroristi. Così si spiega perché il Pentagono abbia bombardato mercoledì 12 raffinerie mobili in Siria, nelle zone di Mayadin, Hasakah, Abu Kamal.
Queste strutture, secondo le stime del comando Centcom, consentivano all’Isis di produrre tra 300 e 500 barili al giorno, per un incasso complessivo dal petrolio che ha raggiunto ormai i 2 milioni di dollari al giorno.

L’indipendenza economica è forse il primo obiettivo strategico che il gruppo terroristico si era posto, quando aveva cominciato l’offensiva per fondare il suo «califfato». Lo scopo non è solo quello di incassare contante e finanziare le proprie attività militari, ma anche quello di prendere il controllo del cuore della produzione energetica mondiale. I soldi infatti aiutano ad attirare i jihadisti stranieri, con cui allargare il territorio controllato, puntando verso l’Arabia Saudita. Se questa strategia funzionasse, secondo i calcoli di Luay al Khatteeb del Brookings Doha Center, l’Isis metterebbe le mani sul 60% delle riserve petrolifere mondiali, e sul 40% della produzione attuale di gas e greggio.
La marcia per la conquista dei pozzi è cominciata dalla Siria, dove ora lo Stato Islamico controlla sei dei dieci campi di produzione, secondo le informazioni della compagnia di risk management Maplecroft. Tra questi anche al Omar, il più ampio, che si trova vicino al confine con l’Iraq. Il regime di Assad, invece, conserva la gestione delle due raffinerie più grandi del Paese e dei tre terminali marittimi per l’esportazione, che si trovano tutti nella zona occidentale.
L’offensiva in Iraq, poi, ha consentito all’Isis di mettere le mani su altri sei campi petroliferi di questo Paese, cioè quelli di Quyarrah, Ajeel, Ain Zalah, West Batma, Sufiyah e Himrin, nelle province di Niniveh e Salahuddin.
Il petrolio viene contrabbandato in cambio di contante, o di prodotti raffinati, che i terroristi usano poi per le loro operazioni militari. Le rotte del traffico portano in Giordania attraverso la regione di Anbar, in Iran attraverso il Kurdistan, e in Turchia passando dall’area di Mosul. Poi c’è il mercato locale in Siria, servito in larga parte dalle raffinerie modulari che il Pentagono ha colpito mercoledì. Il petrolio pesante viene venduto tra i 26 e i 35 dollari al barile, quello leggero a 60 dollari, mentre per quello trafugato più lontano il prezzo sale in base ai costi del percorso. Comunque l’offerta è conveniente e il mercato frutta profitti significativi per l’Isis. Basti pensare che la Turchia, che all’epoca della Guerra del Golfo già chiudeva un occhio sul contrabbando gestito dai curdi al posto di frontiera di Zakho, ha visto aumentare del 300% il traffico lungo il confine con la Siria, dall’inizio della guerra. Ora il Pentagono vuole chiudere questi rubinetti, per togliere i soldi del petrolio all’Isis e soffocare la sua strategia di conquista.

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