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La Stampa Rassegna Stampa
15.09.2014 La coalizione anti-Isis che c'è e non c'è
Cronaca e analisi di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 15 settembre 2014
Pagina: 9
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «No dei turchi, dubbi egiziani: non decolla l'alleanza anti-jihad»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 15/09/2014, a pag. 9, con il titolo "No dei turchi, dubbi egiziani: non decolla l'alleanza anti-jihad", l'articolo di Maurizio Molinari. A seguire, a cura della redazione della Stampa, le posizioni di Turchia, Egitto, Arabia Saudita e Australia.


Barack Obama in una vignetta di Israel Hayom.
"Nel 2014 formerò un'ampia coalizione"
"Nel 2015 formulerò un piano militare"
"Nel 2016 che importa? Sarà presidente qualcun altro" 

Maurizio Molinari: "No dei turchi, dubbi egiziani: non decolla l'alleanza anti-jihad"


Maurizio Molinari             John Kerry                         Barack Obama

Il rifiuto turco, le condizioni egiziane, l’interrogativo sulle truppe di terra e il nodo della legalità dell’intervento aereo in Siria complicano l’opera del Segretario di Stato, John Kerry, impegnato a costruire la coalizione internazionale anti-Isis. Reduce dal summit arabo di Gedda e atteso da quello internazionale di Parigi, Kerry può contare sulla carta sull’impegno di 40 Paesi a sostenere la decisione del presidente Barack Obama di «degradare e distruggere» lo «Stato Islamico» (Isis) del Califfo Ibrahim ovvero Abu Bark al Baghdadi. Ma quanto avvenuto nelle ultime 48, da Ankara al Cairo, descrive la difficoltà di trasformare tali impegni in una coalizione militare.
La Turchia di Recep Tayyp Erdogan, dopo qualche esitazione, ha fatto sapere a Washington che non parteciperà direttamente, non concederà le basi alla coalizione e non consentirà neanche alla Nato di adoperare il proprio territorio. È un «gran rifiuto» che evoca quello espresso all’America di George W. Bush in occasione dell’invasione dell’Iraq nel 2003, anche se le motivazioni in questo caso non riguardano la legittimità dell’attacco quanto interessi nazionali turchi: il timore per la sorte di 49 diplomatici rapiti dall’Isis a Mosul, la volontà di non aiutare l’irredentismo del Kurdistan iracheno per evitare contagi in patria, il rischio di veder la guerra siriana estendersi alle province del Sud dove risiedono circa 1,4 milioni di profughi, il desiderio di non incrinare i rapporti con l’Iran.
Nel 2003 il veto turco obbligò il generale Tommy Franks, capo delle truppe Usa, a rivedere drasticamente i piani di attacco a Saddam Hussein e lo stesso vale ora per John Allen, il generale che viene ricevuto domani da Obama nello Studio Ovale per discutere i piani anti-Isis: senza la Turchia, le basi per gli attacchi - ovvero il posizionamento di aerei e truppe speciali - dovrà avvenire in Iraq e Giordania, gli unici Paesi a ridosso del teatro di operazioni, con l’aggiunta dei Paesi del Golfo come retrovie. Il governo di Baghdad ha già aperto le proprie basi e quello di Amman è pronto a farlo ma qui sorge il secondo interrogativo su «chi e cosa attaccare» con gli aerei. A descrivere il problema è l’Australia - primo partner della coalizione a promettere uomini e mezzi - che annunciando l’invio di 600 uomini in una base degli Emirati - 400 per far volare gli F-18 e 200 truppe speciali - ha tenuto a precisare che «l’autorizzazione è operare al momento solo in Iraq, perché in Siria c’è un problema di legittimità internazionale». Se infatti Baghdad «invita» la coalizione a compiere raid sul suo territorio contro Isis, Damasco si oppone e all’Onu il via libera all’intervento è bloccato dal veto della Russia di Putin. La posizione di Canberra suggerisce perché altri Paesi occidentali - a cominciare da Francia, Germania e Italia - parlino di «aiuti militari contro Isis» riferendosi finora sempre all’Iraq.
L’altra questione aperta è la necessità di truppe di terra in Siria. «Noi non le metteremo ma alcuni Paesi le hanno offerte» fa sapere Kerry, precisando di preferire «forze sunnite» perché Isis è sunnita. I nomi sono top secret, ma Egitto e Arabia Saudita sarebbero disposti a farlo. Il problema per Kerry tuttavia è che entrambi pongono condizioni: il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi gli ha detto di persona che «Isis è un pericolo anche nel Sinai per la presenza delle cellule jihadiste Beit Al Maqqdis», e dunque «combatterlo solo in Siria e Iraq non basta», mentre Riad ha voluto in cambio l’umiliazione del Qatar, obbligando gli Usa a chiedere a Doha l’espulsione dei leader dei Fratelli Musulmani.

TURCHIA: "Teme i contagi in patria"


Recep Tayyp Erdogan

La Turchia ha comunicato che non parteciperà direttamente alla campagna anti-Isis, non concederà le basi alla coalizione e non consentirà alla Nato di adoperare il proprio territorio: Ankara teme per la sorte di 49 diplomatici rapiti a Mosul e non vuole aiutare l’irredentismo del Kurdistan iracheno per evitare contagi in patria.

EGITTO: "Chiede raid anche nel Sinai"


Abdel Fattah al Sisi

L’Egitto ha offerto aiuto con raid aerei e truppe di terra, ma il presidente ha posto delle condizioni: Abdel Fattah Al Sisi ha detto di persona che «Isis è un pericolo anche nel Sinai per la presenza delle cellule jihadiste Beit Al Maqqdis», e dunque «combatterlo solo in Siria e Iraq non basta».

ARABIA SAUDITA: "Vuole umiliare il Qatar"

Riad metterebbe a disposizione le sue basi militari e sarebbe disposta anche a inviare truppe di terra, ma in cambio vuole l’umiliazione del Qatar. Che significa obbligare gli Stati Uniti a chiedere a Doha l’espulsione dei leader dei Fratelli Musulmani, di cui anche gli egiziani chiedono l’arresto.

AUSTRALIA: "Interverrà soltanto in Iraq"

L’Australia è stato il primo Paese a promettere uomini e mezzi, ma ha precisato che «l’autorizzazione è operare solo in Iraq, perché in Siria c’è un problema di legittimità»: a differenza di Baghdad, infatti, Damasco si oppone ai raid sul suo territorio e all’Onu il via libera all’intervento è bloccato dal veto della Russia.

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