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La Stampa Rassegna Stampa
07.04.2014 Perchè il fallimento dei negoziati
L'opinione di A.B. Yehoshua

Testata: La Stampa
Data: 07 aprile 2014
Pagina: 1
Autore: Abraham B. Yehoshua
Titolo: «Se i negoziati ostacolano la pace»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 07/04/2014, in prima pagina e a pag. 29, l'articolo di Abraham B. Yehoshua "Se i negoziati ostacolano la pace". 
Yehoshua constata lo stallo dei negoziati di pace, ma propone, per risollevarne le sorti, una strategia politica che non tiene conto delle 6 richieste di Abu Mazen, vera causa del fallimento.
A suo giudizio gli Stati Uniti dovrebbero minacciare di ritirasi dalla mediazione e di "
riconsiderare i  loro rapporti con lo Stato ebraico". E' soprattutto quest'ultima raccomandazione che, se seguita, avrebbe effetti opposti a quelli auspicati da Yehoshua. L' isolamento di Israele, infatti, premierebbe l'intransigenza negoziale dell'Autorità palestinese. 

Eccoi l'articolo:


                     
Abraham B. Yehoshua        B. Obama e J. Kerry


Arafat/Abu Mazen, la stessa politica
Negli ultimi due anni l’espressione «processo di pace» si è fatta a mio parere problematica e, in un certo senso, dannosa. Per assurdo potrei dire che il processo di pace è diventato un ostacolo alla pace stessa.
Il «processo di pace», a causa degli israeliani, dei palestinesi, degli americani, e forse anche degli europei, si è trasformato in una sorta di entità diplomatica indipendente, la cui retorica morale e politica appare più importante dei fatti.
Dietro la facciata nasconde non solo uno stato di immobilità ma talvolta anche peggio: azioni contro la pace stessa. Il «processo di pace» crea l’illusione che la pace alla fine arriverà e, di conseguenza, infonde un senso di rilassamento, induce ad avere pazienza, quando, in fin dei conti, tale pazienza non è altro che una forma di passività.
Ricordiamo, per esempio, il rapido ed efficiente processo di pace svoltosi tra Israele ed Egitto, due Paesi che si erano affrontati in cinque grandi e sanguinosi conflitti. La visita del presidente egiziano Sadat in Israele nel novembre 1977 diede drammaticamente il via ai negoziati e, dopo meno di un anno, i princìpi di un accordo furono sanciti a Camp David: ritiro dell’esercito israeliano dal Sinai, smilitarizzazione della penisola, smantellamento degli insediamenti israeliani e apertura di sedi di ambasciata. Dopo pochi mesi la pace, che resiste da più di 35 anni, fu firmata.
Viceversa, nonostante nel 1993 fosse siglata a Oslo una prima intesa tra israeliani e palestinesi, un accordo di pace tra loro è ancora lontano. Inoltre, anche se in questi anni sono stati sottoscritti numerosi trattati provvisori, gran parte di essi è stato violato e tra le due fazioni sono avvenuti gravi e sanguinosi scontri, che continuano sporadicamente ancora oggi, per non parlare del notevole ampliamento degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi.
Per ventun anni, a partire dagli accordi di Oslo, decine, se non centinaia, di emissari e di inviati europei e americani hanno fatto la spola tra Israele e i territori dell’Autorità palestinese. Si sono tenuti decine di vertici e ci sono stati contatti diretti a tutti i livelli. Presidenti, Segretari di Stato e della Difesa degli Stati Uniti, nonché ministri di molti paesi europei, sono venuti a Gerusalemme e a Ramallah per parlare, sollecitare e avanzare nuove proposte. Il Segretario di Stato americano John Kerry negli ultimi sei mesi è stato undici volte in Israele e nei territori dell’Autorità palestinese per promuovere il processo di pace, che però continua a languire.
La testimonianza più autentica della disillusione sull’attuale «processo di pace» la si ha nel corso di casuali conversazioni nelle strade delle città israeliane e palestinesi. Sia moderati che estremisti di entrambe le parti sono accomunati da una totale mancanza di speranza che la pace possa essere raggiunta e c’è anche chi, a destra e a sinistra, ritiene che nemmeno in futuro si potrà mai arrivare a tale obiettivo. Eppure la stragrande maggioranza della popolazione concorda che non si debbano in alcun modo fermare gli sforzi e questo perché, dopo una giornata spesa di fatto ad agire contro qualsiasi possibilità di raggiungere un accordo, è bello addormentarsi la sera con il «processo di pace» posato addormentato sul guanciale.
È interessante notare che la stragrande maggioranza degli israeliani e dei palestinesi e, naturalmente, di tutti gli intermediari europei e americani, descrive più o meno in maniera simile le possibili linee guida (reali, non immaginarie) di un giusto accordo tra Palestina e Israele. Se non che, nel frattempo, questo infinito «processo di pace» genera fantasie su possibili concessioni che una parte vorrebbe ottenere dall’altra, così che durante questa interminabile e inesauribile serie di illusioni, la pace si fa sempre più lontana.
Che cosa fare allora? Personalmente ritengo che solo una vera e propria crisi potrebbe favorire la pace. Non una crisi necessariamente legata a focolai di violenza bensì un’interruzione dei rapporti e la sospensione ufficiale (benché temporanea) del «processo di pace». E questa sospensione, naturalmente, non interesserebbe unicamente le parti coinvolte ma soprattutto i vari intermediari, europei e americani, che si comportano come assistenti sociali dal carattere debole in un istituto per ragazzi problematici. Un ritiro ufficiale degli Stati Uniti dal processo di pace, con tutto ciò che questo comporta per israeliani e palestinesi, potrebbe suscitare un senso di panico in ampi circoli e, forse, servire da incentivo per un dialogo concreto, e preferibilmente segreto, in vista di un possibile accordo.
A metà degli Anni Settanta, dopo la guerra dello Yom Kippur, il Segretario di Stato americano Henry Kissinger iniziò a darsi da fare per separare le forze di Israele, Egitto e Siria. Per un intero mese fece quotidianamente la spola tra le varie capitali. A un certo punto, disperato per la testardaggine di Israele, lasciò intendere che si sarebbe ritirato dalla mediazione e che gli Stati Uniti avrebbero riconsiderato i loro rapporti con lo stato ebraico e, in men che non si dica, meraviglia delle meraviglie, la posizione di Israele si ammorbidì e un’intesa fu raggiunta.
Non è possibile che gli Stati Uniti, ancora considerati la principale superpotenza mondiale e con le idee molto chiare sui dettagli e sul tipo di accordo che dovrà essere stipulato tra palestinesi e israeliani, sprechino le loro risorse, si umilino e creino false illusioni in un «processo di pace» che non fa che ritardare la pace stessa.

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Negli ultimi due anni l’espressione «processo di pace» si è fatta a mio parere problematica e, in un certo senso, dannosa. Per assurdo potrei dire che il processo di pace è diventato un ostacolo alla pace stessa.Il «processo di pace», a causa degli israeliani, dei palestinesi, degli americani, e forse anche degli europei, si è trasformato in una sorta di entità diplomatica indipendente, la cui retorica morale e politica appare più importante dei fatti.Dietro la facciata nasconde non solo uno stato di immobilità ma talvolta anche peggio: azioni contro la pace stessa. Il «processo di pace» crea l’illusione che la pace alla fine arriverà e, di conseguenza, infonde un senso di rilassamento, induce ad avere pazienza, quando, in fin dei conti, tale pazienza non è altro che una forma di passività.Ricordiamo, per esempio, il rapido ed efficiente processo di pace svoltosi tra Israele ed Egitto, due Paesi che si erano affrontati in cinque grandi e sanguinosi conflitti. La visita del presidente egiziano Sadat in Israele nel novembre 1977 diede drammaticamente il via ai negoziati e, dopo meno di un anno, i princìpi di un accordo furono sanciti a Camp David: ritiro dell’esercito israeliano dal Sinai, smilitarizzazione della penisola, smantellamento degli insediamenti israeliani e apertura di sedi di ambasciata. Dopo pochi mesi la pace, che resiste da più di 35 anni, fu firmata. Viceversa, nonostante nel 1993 fosse siglata a Oslo una prima intesa tra israeliani e palestinesi, un accordo di pace tra loro è ancora lontano. Inoltre, anche se in questi anni sono stati sottoscritti numerosi trattati provvisori, gran parte di essi è stato violato e tra le due fazioni sono avvenuti gravi e sanguinosi scontri, che continuano sporadicamente ancora oggi, per non parlare del notevole ampliamento degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi.Per ventun anni, a partire dagli accordi di Oslo, decine, se non centinaia, di emissari e di inviati europei e americani hanno fatto la spola tra Israele e i territori dell’Autorità palestinese. Si sono tenuti decine di vertici e ci sono stati contatti diretti a tutti i livelli. Presidenti, Segretari di Stato e della Difesa degli Stati Uniti, nonché ministri di molti paesi europei, sono venuti a Gerusalemme e a Ramallah per parlare, sollecitare e avanzare nuove proposte. Il Segretario di Stato americano John Kerry negli ultimi sei mesi è stato undici volte in Israele e nei territori dell’Autorità palestinese per promuovere il processo di pace, che però continua a languire.La testimonianza più autentica della disillusione sull’attuale «processo di pace» la si ha nel corso di casuali conversazioni nelle strade delle città israeliane e palestinesi. Sia moderati che estremisti di entrambe le parti sono accomunati da una totale mancanza di speranza che la pace possa essere raggiunta e c’è anche chi, a destra e a sinistra, ritiene che nemmeno in futuro si potrà mai arrivare a tale obiettivo. Eppure la stragrande maggioranza della popolazione concorda che non si debbano in alcun modo fermare gli sforzi e questo perché, dopo una giornata spesa di fatto ad agire contro qualsiasi possibilità di raggiungere un accordo, è bello addormentarsi la sera con il «processo di pace» posato addormentato sul guanciale.È interessante notare che la stragrande maggioranza degli israeliani e dei palestinesi e, naturalmente, di tutti gli intermediari europei e americani, descrive più o meno in maniera simile le possibili linee guida (reali, non immaginarie) di un giusto accordo tra Palestina e Israele. Se non che, nel frattempo, questo infinito «processo di pace» genera fantasie su possibili concessioni che una parte vorrebbe ottenere dall’altra, così che durante questa interminabile e inesauribile serie di illusioni, la pace si fa sempre più lontana.Che cosa fare allora? Personalmente ritengo che solo una vera e propria crisi potrebbe favorire la pace. Non una crisi necessariamente legata a focolai di violenza bensì un’interruzione dei rapporti e la sospensione ufficiale (benché temporanea) del «processo di pace». E questa sospensione, naturalmente, non interesserebbe unicamente le parti coinvolte ma soprattutto i vari intermediari, europei e americani, che si comportano come assistenti sociali dal carattere debole in un istituto per ragazzi problematici. Un ritiro ufficiale degli Stati Uniti dal processo di pace, con tutto ciò che questo comporta per israeliani e palestinesi, potrebbe suscitare un senso di panico in ampi circoli e, forse, servire da incentivo per un dialogo concreto, e preferibilmente segreto, in vista di un possibile accordo.A metà degli Anni Settanta, dopo la guerra dello Yom Kippur, il Segretario di Stato americano Henry Kissinger iniziò a darsi da fare per separare le forze di Israele, Egitto e Siria. Per un intero mese fece quotidianamente la spola tra le varie capitali. A un certo punto, disperato per la testardaggine di Israele, lasciò intendere che si sarebbe ritirato dalla mediazione e che gli Stati Uniti avrebbero riconsiderato i loro rapporti con lo stato ebraico e, in men che non si dica, meraviglia delle meraviglie, la posizione di Israele si ammorbidì e un’intesa fu raggiunta.Non è possibile che gli Stati Uniti, ancora considerati la principale superpotenza mondiale e con le idee molto chiare sui dettagli e sul tipo di accordo che dovrà essere stipulato tra palestinesi e israeliani, sprechino le loro risorse, si umilino e creino false illusioni in un «processo di pace» che non fa che ritardare la pace stessa.

lettere@lastampa.it

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