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Il Venerdì di Repubblica Rassegna Stampa
23.12.2016 La Gerusalemme che non ti aspetti
Analisi di Paolo Casicci

Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 23 dicembre 2016
Pagina: 74
Autore: Paolo Casicci
Titolo: «Città santa ma piaceri profani»

Riprendiamo dal VENERDI' di Repubblica di oggi, 23/12/2016, a pag. 74, con il titolo "Città santa ma piaceri profani", l'analisi di Paolo Casicci.

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Paolo Casicci

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Il mercato di Machane Yehuda, a Gerusalemme

L'altra Gerusalemme è qui, tra i banchi di un antico mercato trasformato in tempio della movida. Di giorno israeliani e turisti si affollano a caccia di spezie e formaggi gourmet, la notte sciamano giovani di tutto il mondo carichi di birre, falafel e ghiottonerie mediorientali. Sullo sfondo, i faccioni di Golda Meir ed Elisabetta II campeggiano dalle saracinesche di pub e botteghe, dipinti da street artist ormai quotati. Non c'è immagine migliore del Shuk, per immortalare l'anima meno scontata della Città Santa, quella che al calare della sera chiede soltanto una pinta e casse gonfiate dai decibel.

Fino a qualche anno fa era difficile poter associare a Gerusalemme una vaga idea di divertimento, ma se c'è un luogo dove la capitale israeliana ha iniziato a recuperare terreno sull'eterna rivale Tel Aviv, è proprio il Mahane Yehuda Market: il Shuk, come lo chiamano dai tempi dell'Impero ottomano. La svolta risale a cinque anni fa ed è l'effetto di una contabilità tragica. Tra il 1997 e il 2002 una serie di attentati fa 23 vittime nell'area del mercato e spinge gerosolimitani e stranieri a tenersene alla larga. Il board che gestisce il Shuk pensa allora di rispondere al terrore con un'iniezione di vitalità e qualche incentivo.

In breve, iniziano a nascere nell'area coperta e tutt'intorno bar e caffè di tendenza che, a sera, servono cibo internazionale e pietanze vegane accanto ai tradizionali kebab, kashrut, hummus e shakshuka. Tra gli stand di prelibatezze tipiche e le urla dei venditori, fa capolino anche il primo fish e chips di Gerusalemme e, dal 2010, il festival Balabasta diventa con il suo cartellone di arti varie un punto di riferimento dell'offerta culturale israeliana. A quel punto è normale per un'avanguardia di locali restare aperti perfino a shabbat, accorciando una volta di più le distanze da Tel Aviv, dove è prassi da sempre, per i bistrot e i ristoranti alla moda, "violare" il sacro riposo del venerdì.

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Vita notturna a Gerusalemme

Oggi visitano il Shuk circa 200 mila stranieri alla settimana. Una rinascita che è coincisa con la crescita del turismo in città, dove le presenze sono passate in pochi anni da 2,5 a 4 milioni grazie proprio all'offerta extrareligiosa. «Il mercato è così popolare» dice Michael Weiss, editore di una popolare guida al Shuk, «proprio perché è una meta profana. Dici Gerusalemme e pensi alla città vecchia e ai suoi santuari. Ma qui si viene per bere, ballare e non avere pensieri». Gli ultimi arrivati al Shuk sono gli street artist, un'allegra brigata di trenta graffitari in erba arruolati da un collega più famoso, Itamar Paloge. «Per il progetto Tabula rasa, Itamar ha invitato nel 2011 allievi delle scuole d'arte, creativi e fotografi della città» racconta Lior Shabo. a Parliament ha sede a casa di Shabo, a pochi passi dal Shuk, nello storico quartiere diYemin Moshe, il primo sorto nel tardo Ottocento fuori dalla città vecchia. «La sfida più grande» racconta Lior «è evitare che le nostre menti migliori vadano via da Gerusalemme per realizzarsi a Tel Aviv, negando un futuro alla loro città».

Un'ossessione, quella per Tel Aviv, che, trasformata in sana competizione, sta dando i suoi frutti. Dallo stimolo alla sfida è rinata per esempio la Alliance House, un enorme edificio a pochi passi dal Shuk, sorto come scuola alla fine dell'Ottocento, abbandonato da quindici anni e infine rilevato da tre imprenditori che, nell'attesa di incassare i permessi per farne un hotel di lusso, hanno deciso di destinarlo, dallo scorso aprile, a sede di New Spirit: un'altra organizzazione non profit che ha chiamato a raccolta creativi di tutte le arti, dalla danza alla musica passando per la pittura e il teatro, e affittato loro gli spazi perché li trasformino in laboratori aperti al pubblico. Anche la Hansen House, nel quartiere di Talbiya, è una fucina di creativi sottratta, in questo caso per sempre, alla speculazione: da storico lebbrosario chiuso nel 2000 a sede, vincolata dai beni culturali, del Mamuta Art and Media Center che, tra le altre cose, ospita da sei anni la Design Week della capitale.

Sia la Hansen sia la Alliance House hanno fatto il pieno di visitatori all'ultimo Open House di settembre, l'iniziativa internazionale che apre al pubblico luoghi e tesori - privati e non - nascosti o poco conosciuti. Nel caso della Alliance House, in centinaia erano curiosi di capire che cosa avesse spinto tre imprenditori a rallentare un investimento milionario per un coworking di creativi che funziona anche come banca del tempo. «Semplicemente, ci piaceva l'idea di offrire ai talenti locali la possibilità di lavorare nella loro città e non andarsene via» spiega Amir Biran, uno dei tre proprietari dell'edificio, entrato a sua volta a far parte del board di New Spirit. Non solo: nella nuova Alliance House si lavora anche per favorire il dialogo inter-religioso e abbattere steccati. per questo che una serie di corsi di ceramica, gioielleria e pittura sono riservati alle donne haredi, provenienti dalle comunità ebree ultraortodosse meno aperte agli scambi con i gentili. Il passo successivo potrebbe essere portare le allieve al Shuk. Di sera, ovviamente.

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