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La Repubblica Rassegna Stampa
11.10.2017 Amos Oz racconta il suo libro 'Cari fanatici'
Lo intervista Wlodek Goldkorn

Testata: La Repubblica
Data: 11 ottobre 2017
Pagina: 37
Autore: Wlodek Goldkorn
Titolo: «Nipoti miei, vi insegno a diventare uomini liberi»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 11/10/2017, a pag. 37, con il titolo
"Nipoti miei, vi insegno a diventare uomini liberi" l'intervista di Wlodek Goldkorn a Amos Oz.

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Wlodek Goldkorn

Ha sempre avuto due vite Amos Oz: una da scrittore; l’altra da intellettuale pubblico, in prima linea nella lotta contro l’occupazione e per il riconoscimento dei diritti dei palestinesi. Lui ha sempre voluto convincere qualsiasi (incredulo) interlocutore che si trattava di due vite parallele: dei sentimenti mi occupo nei romanzi, se voglio criticare il mio governo scrivo un articolo, ripeteva. Ora con Cari fanatici, un saggio composto da tre brevi testi in uscita da Feltrinelli, i più fedeli, ma anche gli occasionali lettori di Oz possono finalmente trovare il punto in cui le sue due vite si congiungono: quel punto è la convinzione che tutti gli esseri umani sono i padroni delle proprie scelte, ma anche e prima ancora, che la chiave per una vita decente è saper ascoltare l’altro ed essere capace di vedere il mondo e se stessi con gli occhi altrui. Il miracolo della buona letteratura e della buona politica ha la stessa origine: la capacità dell’osservazione e la distanza da se stessi. E per quanto riguarda il fanatismo: per Oz è un male che affligge tutta l’umanità; ebrei come musulmani, cristiani, come laici.

Crede che un fanatico sia interessato a di leggere le tre lettere che gli ha indirizzato? «Le lettere non sono indirizzate ai fanatici, ma a tutti noi. In tutti noi è presente un nucleo di fanatismo. Il fanatico è un punto esclamativo deambulante. Lo siamo tutti un po’, perché nei rapporti con i nostri partner o figli, tutti diciamo: devi essere come me. Vogliamo rimodellare gli altri per una sorta di altruismo, per il loro bene. Il desiderio di rimodellare l’altro è il primo grado del fanatismo».

Ma è un desiderio nobile. Si vuole rendere migliore la persona a cui vogliamo bene. Vale anche per la politica; che senso avrebbe farla se non per cambiare la società? «Il vero fanatico non è interessato alle persone concrete né alla vita sociale quotidiana. Il suo è l’interesse per una fede e un’idea. Pensa di agire per il bene dell’altro ma in realtà vuole un mondo in cui “Nella vita pubblica ero in prima linea: ora non più” tutti si assomigliano, tutti sono uguali, e quindi non c’è più l’altro. Un segno inequivocabile per cui si riconosce un fanatico è la mancanza del senso dell’umorismo. Aggiungo le parole di Churchill: il fanatico non cambia mai opinione né permette di cambiare l’oggetto della conversazione».

Di solito, quando parliamo del fanatismo, abbiamo in mente i fondamentalisti religiosi o politici che vogliono un regime totalitario. Da quello che sta dicendo si può però dedurre che esiste anche un fanatismo laico che non vuole dittature... «Ovvio. Il fanatismo ambientalista e no global e perfino il fanatismo delle squadre di calcio».

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La copertina (Feltrinelli ed.)  Amos Oz

Ci sarà una differenza tra chi vuole un regime totalitario o fondamentalista e un fanatico della Fiorentina, per esempio... «La differenza è minima se quell’ultrà augura la morte ai tifosi delle altre squadre perché solo la Fiorentina è degna di essere oggetto di tifo».

Sta dicendo che il fanatismo contempla la morte simbolica? «Sì, ed è un concetto importante. Va bene urlare allo stadio, visto che chi alza la voce non è necessariamente un fanatico. Il fanatismo non si misura dal tono della voce, ma dalla disponibilità ad ascoltare e a tollerare altre voci. Il rifiuto dell’ascolto è dare morte simbolica».

Come si fa guarire un fanatico? «Ho già detto che non ho mai incontrato un fanatico dotato del senso dell’umorismo. E se potessi concentrare il senso dell’umorismo in un vaccino, vincerei il Nobel per la Medicina. Seriamente, sono convinto che la letteratura, la buona letteratura sia un antidoto al fanatismo. La letteratura è cugina del gossip. Il gossip a sua volta è il risultato della nostra volontà di guardare dentro le finestre degli altri per sapere come vivono, cosa mangiano. La letteratura però fa un passo in più: non solo vuole vedere cosa c’è dentro la finestra altrui, ma indaga su che cosa si vede da quella finestra. La letteratura permette cioè di assumere lo sguardo altrui sul mondo. Un persona capace di vedere se stesso o l’universo con gli occhi degli altri non può essere un fanatico, perché una persona così sa che ci sono tanti modi di vedere e leggere la realtà. Un uomo o una donna che frequenta la letteratura sa che non esiste un solo linguaggio. John Donne ha scritto che nessuno è un’isola. Io dico che siamo tutti una penisola. Per il pensiero di stampo totalitario siamo solo una molecola di una cosa più grande (il continente), per il pensiero neo-liberale radicale siamo un arcipelago di isole senza legami. Io propugno una via di mezzo: in parte siamo legati a qualcosa di grande e collettivo, ma di fronte all’amore e alla morte siamo soli, esposti esclusivamente al silenzio dell’oceano e della montagna».

Perché ha sentito il bisogno di scrivere questo libro? «L’ho dedicato ai miei quattro nipoti. Giunto all’età di 78 anni ho solo la mia parola. Non ho un partito, non sono una guida né un maestro. Volevo dire: vostro nonno per sessant’anni era in prima linea, nella vita pubblica; ora il nonno è vecchio. Sta nelle retrovie. Se voi vorrete combattere, il nonno vi darà le munizioni; vi darà suggerimenti su come pensare. È questo che faccio. Aggiungo: il capitalismo, “Hannah Arendt sbagliava nazismo non è burocrazia” oggi, ci rende tutti infantili, ci dice che la felicità consiste nel comprare un determinato prodotto. Ma lo fa anche la politica che assieme ai media è ormai parte dell’industria dell’intrattenimento. Ecco, io vorrei che tornassimo adulti e cioè responsabili delle nostre azioni. Quando Gesù dice: “Perdonali perché non sanno quel che fanno”, sbaglia».

Sta dicendo che c’è un elemento di male in ognuno di noi e che ci piace infliggere il male? «Sì. L’albero di cui Adamo ed Eva hanno mangiato il frutto era l’albero della conoscenza del bene e del male. La teoria di Hannah Arendt per cui il male è una serie di procedure burocratiche non mi convince. L’assassino sa di violare un tabù».

Lei cita una storia del Talmud, la storia del forno di Akhnai, dove Dio interviene in una disputa tra rabbini. E quando uno dei sapienti gli dice: Signore, questa è una vicenda tra noi uomini, tu non c’entri, Dio finisce per dargli ragione. È una parabola sulla libertà di scelta amata dagli ebrei laici, specie gli esistenzialisti. E tuttavia, perché noi, ebrei laici ed esistenzialisti, ricorriamo a un testo della nostra tradizione? Perché siamo così influenzati dal nostro background culturale? «La domanda giusta non è quanto siamo condizionati dal nostro background ma in quale misura siamo capaci di liberarci da questo background, in percentuale: il 10 per cento? Il 50? È questa la vera domanda sulla nostra libertà. E per quanto riguarda la nostra autonomia rispetto a Dio: chi di noi si rivolge a Lui, anche per maledirlo, in fondo porta dentro di sé un elemento di fede».

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