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La Repubblica Rassegna Stampa
13.07.2017 Emanuele Fiano: 'Gli insulti antisemiti? Dimostrano che la legge serve. E in Italia il fascismo non è mai morto'
Intervistato da Annalisa Cuzzocrea

Testata: La Repubblica
Data: 13 luglio 2017
Pagina: 11
Autore: Annalisa Cuzzocrea
Titolo: «'Alla Camera mai successo ma altrove ci sono abituato. In Italia il fascismo esiste'»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 13/07/2017, a pag. 11, con il titolo "Alla Camera mai successo ma altrove ci sono abituato. In Italia il fascismo esiste", l'intervista di Annalisa Cuzzocrea a Emanuele Fiano.

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Annalisa Cuzzocrea

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Emanuele Fiano

La voce di Emanuele Fiano si spezza più di una volta, e stenta a tornare. Quando ripete il numero che ha visto marchiato sulla pelle del padre fin da bambino. Quando ricorda la prima volta in cui è stato insultato perché ebreo. Aveva tredici anni, «di quelli come te dovremmo fare saponette », gli avevano urlato. Ragazzini come lui, quando ancora non sapeva e non poteva capire fino in fondo. Da giorni, il deputato Pd è bersaglio di attacchi antisemiti che gli arrivano sui social o via mail per la legge contro la propaganda fascista che ha proposto in Parlamento. Ci è abituato, «quante quante volte…», ripete mentre gli tornano in mente. Emanuele Fiano è sotto scorta. Conosce l’ingiuria e la minaccia.

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Il post antisemita di Massimo Corsaro

Adesso però è un deputato, Massimo Corsaro, ad attaccarla con una battuta antisemita. Le era mai successo? «No. Sono in Parlamento da undici anni e non era mai accaduto ».

Cosa si è scatenato dopo che la sua legge contro la propaganda nazifascista è arrivata in aula ? «Ci sono state una serie di critiche, alcune del tutto legittime e anche utili al miglioramento della legge. Altre secondo me inaccettabili. Poi naturalmente ho ricevuto una marea di insulti. E anche qualche minaccia».

Dice «naturalmente». Come può essere naturale? «Non lo è per chi non conosce il sottobosco del neofascismo».

Alcuni criticano la sua legge in nome della libertà di opinione. Come risponde? «Sono critiche che rispetto, ma non condivido: io non voglio colpire le opinioni. Per me, chi dice “sono fascista e mussoliniano” non deve essere perseguito. Le norme riguardano chi fa propaganda delle idee fasciste».

Di propaganda si parla anche nella legge Scelba. Non basta? «La legge Scelba è del 1952. A quei tempi, per fare propaganda, si organizzava una manifestazione di piazza o si scriveva un articolo di giornale, arrivando a qualche migliaio di persone. Oggi in cinque minuti un singolo costruisce una pagina Facebook, ci carica i discorsi di Goebbels, Hitler e Mussolini riferiti alla razza ebraica o a non dover mescolare gli italiani con gli africani e in un attimo quel messaggio arriva a milioni di persone».

C’è anche una parte sul saluto romano. «Mi sono giunte proposte di modifica che circoscrivono il reato all’esercizio della propaganda e sono pronto ad accoglierle».

Lei dice: non era mai successo. Si è chiesto perché oggi? «Credo da tempo che in un’Europa colpita dalla crisi finanziaria ed economica, dove aumentano diseguaglianze, disagio, rabbia e dove preme il fenomeno epocale dell’immigrazione, si stia creando un terreno molto fertile per le idee di discriminazione fasciste e neonaziste, che possono attecchire e utilizzare vecchie ricette per problemi nuovi».

Ricorda la prima volta in cui ha ricevuto un insulto a causa delle sue origini? «Avevo tredici anni. Stavo andando da solo verso un appuntamento di un’associazione ebraica, una cosa scout, e dei ragazzi mi hanno urlato: “Di quelli come voi bisogna fare saponette”. Era la metà degli anni ’70. Ma è successo tante altre volte».

E lei? «La prima volta in cui mi resi conto che non si poteva lasciare questa cosa ad altri fu quando, dietro il duomo di Milano, a un’organizzazione di estrema destra fu concesso di fare un banchetto con libri negazionisti. Chiesi di comprarli, ci fu un parapiglia, intervenne la Digos. Lì capii che era necessario parlare. Erano gli anni in cui prendevo coscienza della storia di mio padre».

L’ha scoperta a quindici anni? «Fu allora che iniziò a raccontare i giorni ad Auschwitz, la distruzione della sua famiglia. Prima avevo dei segni da guardare sul suo corpo: le ferite delle bastonate, delle torture. Quel numero sul braccio: 5405. E poi, non avevo una famiglia paterna – zii, nonni – capivo che c’era qualcosa che non sapevo».

Chi è che l’ha minacciata in questi anni? «Personaggi che sono passati sotto processo e sono stati condannati, gruppi neonazisti. Sa chi ha detto una cosa che mi ha molto colpito? Pier Luigi Castagnetti. Presiede la fondazione del campo di concentramento di Fossoli, dove mio padre fu internato prima di Auschwitz insieme ai suoi genitori. Prima di lui erano passati di lì mio zio, mia zia…».

Si ferma. «Non ne parlo facilmente ».

Cerca qualcosa che sciolga il nodo in gola. Poi riprende. «Castagnetti ha scritto: non capisco perché non possiamo ribadire migliaia e migliaia di volte la nostra avversione all’apologia del fascismo. Una frase che ha il dono della semplicità come risposta alla posizione legittima, ma molto sofisticata, di chi dice che non è questa la risposta giusta. Io non credo che basti una battaglia culturale. Penso sia necessaria, ma non credo che basti».

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