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La Repubblica Rassegna Stampa
25.01.2017 Doppio standard: se Israele è l'unico Stato al Mondo che non può edificare abitazioni dove lo ritiene opportuno
La disinformazione di Alberto Stabile

Testata: La Repubblica
Data: 25 gennaio 2017
Pagina: 15
Autore: Alberto Stabile
Titolo: «Rivoluzione nei rapporti Usa-Israele: 'Via libera a migliaia di nuove case'»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 25/01/2017, a pag. 15, con il titolo "Rivoluzione nei rapporti Usa-Israele: 'Via libera a migliaia di nuove case' ", il commento di Alberto Stabile.

Qualunque Paese del Mondo è libero di costruire abitazioni dove preferisce. Tanto più questo vale per Israele, dove la popolazione cresce a ritmo sostenuto e dunque quella di nuove case è una necessità primaria. Invece, secondo Alberto Stabile - seguito da tutti i media più importanti -, Israele dovrebbe fare eccezione e non potrebbe decidere liberamente dove e che cosa edificare. Il risultato è un doppio standard di giudizio inaccettabile.

Stabile descrive inoltre il governo di Israele a guida Netanyahu come di "estrema destra", e scrive dei territori contesi come di "terre occupate" da Israele. Ancora una volta la disinformazione passa attraverso l'uso delle parole.

Ecco l'articolo:

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Alberto Stabile

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Ma'ale Adumim

Nel giorno del suo primo colloquio con il presidente Trump, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha annunciato la fine di ogni restrizione nell’espansione degli insediamenti ebraici nei Territori occupati e a Gerusalemme est, e trionfalisticamente ha concluso che d’ora in poi «possiamo costruire dove vogliamo e quanto vogliamo». Simultaneamente, il municipio della Città Santa, rispolverando un vecchio progetto che era costato l’ennesimo scontro tra Netanyahu e Obama, ha comunicato il via libera alla costruzione di 566 nuove abitazioni in tre insediamenti nella parte araba di Gerusalemme unilateralmente annessa nel 1967. Ventiquattro ore dopo, ieri, il governo ha annunciato la costruzione di 2500 alloggi nei ‘gushim’, i maggiori insediamenti ebraici già esistenti in Cisgiordania.

E’ già significativo che all’annuncio dato da Netanyahu non sia seguita alcuna presa di posizione della Casa Bianca. E questo basta per spingere l’estrema destra israeliana a parlare dell’ascesa di Donald Trump come l’inizio una nuova era e a vedere nel tramontato regno di Barack Obama, per citare le parole del sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, «sette anni molto difficili». Poco più di un mese è trascorso da quando, lo scorso 23 di dicembre, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha condannato gli insediamenti dei Territori come “illegali”, senza che gli Stati Uniti di Obama, che come le precedenti amministrazioni si erano sempre schierati a difesa d’Israele, opponessero il loro veto alla risoluzione di condanna.

E’ stato, quel voto, l’apice di un periodo di incomprensione, ostilità personale e ripicche, che hanno caratterizzato i rapporti tra Obama e Netanyahu durante i due mandati del presidente americano e di cui l’attività di colonizzazione de Territori da parte israeliana ha rappresentato la fonte di molta discordia. Un episodio di questa guerra riguarda proprio gli insediamenti i cui si torna a parlare adesso: le 566 case che dovranno essere costruite a Pisgat Zeev e negli insediamenti religiosi di Ramot e Ramat Shlomo. Era il marzo del 2010 quando, durante una visita ufficiale del vicepresidente Joe Biden, il municipio di Gerusalemme annunciò il rilascio delle concessioni. Apriti cielo. Obama prese la decisone di ampliare gli insediamenti come un insulto alla sua Amministrazione, a quel tempo ancora impegnata a resuscitare il processo di pace, e alla persona del vicepresidente, preso alla sprovvista. Il Comune decise di soprassedere, ma poiché una delle scusanti evocate dagli israeliani era la mancanza di coordinamento tra l’ufficio comunale responsabile della pianificazione edilizia e il governo, fu imposto a Netanyahu il compito di coordinare la materia.

Domenica, il premier israeliano si è liberato di quel compito sgradevole di coordinatore (responsabile, censore), sicuro che il nuovo ospite della Casa Bianca non tornerà a chiederglielo e tanto meno a imporglielo. E allora gli oltre 430mila “coloni” della Cisgiordania e i 230mila di Gerusalemme Est possono gioire al ritorno in grande stile delle ruspe. Visto che con Trump si annuncia una vera e propria luna di miele, Netanyahu ha voluto allentare la pressione delle richieste al presidente, accantonando, per ora, il tema dell’annessione di Maale Adumin, un altro insediamento di circa 40-50 mila persone, sorto a Gerusalemme Est, al di là della “linea verde” che prima delle Guerra del ‘67 demarcava il confine tra Israele e la Cisgiordania. L’annessione di Maale Adumim è un obbiettivo cui tiene molto il partito dei coloni, Focolare Ebraico, guidato dal ministro dell’Istruzione, Naftali Bennett, ma è anche un incubo per i palestinesi, perché, oltre a sorgere sul suolo palestinese, impedisce ogni continuità territoriale del futuro Stato.

Ma Netanyahu, anche se è perfettamente d’accordo con il nazional-religioso Bennet nell’annettere Maale Adumim, ha pregato il Gabinetto di Sicurezza di rimandare la decisione a dopo il suo primo incontro con Trump,previsto a febbraio. Qualcuno dei membri del gabinetto lo ha anonimamente accusato di “ipocrisia”. In questo offensiva del sorriso e del bel gesto, anche Trump ha voluto dare il suo contributo, allontanando nel tempo la decisione, ribadita alla vigilia del suo insediamento, di trasferire la sede dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Un gesto che equivarrebbe alla accettazione (e legittimazione) della annessione di Gerusalemme Est e della proclamazione unilaterale israeliana che vuole Gerusalemme “Capitale eterna, unica e indivisibile” d’Israele, cosa che la comunità internazionale, salvo rare e irrilevanti eccezioni, s’è a suo tempo rifiutata di fare. Forse qualcuno ha fatto capire a Trump che si tratterebbe di una decisione temeraria e foriera di gravi conseguenze. Ma la verità è che per Netanyahu, in questo momento, il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme non è una priorità.

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