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La Repubblica Rassegna Stampa
14.10.2016 Le parole giuste per definire il terrorismo
Commento di Alberto Melloni

Testata: La Repubblica
Data: 14 ottobre 2016
Pagina: 38
Autore: Alberto Melloni
Titolo: «Il terrorismo e le parole giuste»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 14/10/2016, a pag. 38, con il titolo "Il terrorismo e le parole giuste", il commento di Alberto Melloni.

Bene fa Alberto Melloni a sottolineare la necessità di usare parole giuste per definire il terrorismo. Terrorismo, bisogna aggiungere, che è islamico: non significa che tutti i musulmani siano terroristi, ma che tutti i terroristi siano musulmani. Ne abbiamo discusso più volte sulle pagine di IC: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=8&sez=120&id=60530
Ma tutti i media continuano a dire "radicali" e "radicalizzazione", parole che tranquillizzano invece di far capire la vera natura del terrorismo islamico.

Ecco l'articolo:

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Alberto Melloni

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La fonte del terrorismo islamico, ancora con  la versione inglese 'radical'

Siamo vulnerabili davanti ai terroristi che vogliono uccidere/uccidersi anche perché usiamo categorie approssimative e ambivalenti. Come quelle di “jihadismo” e “radicalizzazione”, che spiccano nel titolo di un disegno di legge di cui si sta discutendo nella Commissione I della Camera. Che il terrorismo islamista abbia sequestrato la parola “jihad”, che vuol dire “sforzo ascetico” è un sopruso: ma a molti sembra la cosa più comoda. Chiamare “radicali” gli assassini — il paese di Marco Pannella lo capisce subito — è un regalo che si fa ai terroristi: ma ormai questo è gergo politico europeo e nazionale. Lo dimostra la “Policy Review” sull’estremismo violento presentata a Bruxelles pochi giorni fa (in cui la ricerca italiana, priva da mesi di un proprio attaché scientifico presso l’Unione, è stata gentilmente invitata ad ascoltare): il documento, dovuto ad un grande specialista come Gilles Kepel, propone quattro soluzioni tutte fondate sulla ricerca; ma assume che la “radicalizzazione” sia un percorso autoevidente di passaggio all’estremismo violento.

Su scala nazionale lo conferma il citato disegno di legge sulla “prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista”: una proposta che mescola ambizioni securitarie (con insegnanti elevati al rango di controllori), utopie sull’educazione interculturale (con compiti affidati a personale che non si capisce chi formi e dove), e ipotesi di allargare il mercato del dialogo (con la richiesta di produrre “controlli” e “contro-narrative”). Chi pensa che un linguaggio mordace e di controllo possa impedire il reclutamento di terroristi coltiva tre illusioni. La prima illusione riguarda la posizione delle più antiche comunità di fede. Strumenti invasivi di scrutinio religioso sono inaccettabili all’ebraismo, che sa bene che i congegni anti-islamici fecondano l’antisemitismo. E il cattolicesimo romano non potrà accettare in Italia un sistema di controlli che altrove nel mondo gli potrà essere usato contro. La lotta al terrorismo va fatta chiamandolo così: senza concedere patenti religiose a giovani sanguinari assetati di adrenalina, e senza illudersi che ci siano strumenti diversi dalla intelligenza repressiva e senza cedere al sospetto preventivo.

La seconda illusione è che la predicazione repubblicana possa proteggere le comunità di fede e oggi la comunità islamica dalla aggressione di terroristi: chi loda l’imposizione dell’inno nazionale cantato da tutti in Francia — con i solchi abbeverati dal “sangue impuro” della Marsigliese — come profilassi “anti-radicale” compie una pericolosa semplificazione. Il jihadismo (in questo ha ragione Kepel) non vuole né “distruggerci” né “sottometterci”: gli basta che noi perdiamo il desiderio di essere una società aperta e pluralista. Sogna che accettiamo forme di repressione più o meno sottile, utili ad aggregare ad una “avanguardia” sanguinaria le masse sunnite in una insurrezione generale che ridia unità e dignità politica a terre usate come poligono di tiro dalle aviazioni di mezzo mondo.

E a questa sfida noi dobbiamo rispondere pretendendo parole rigorose, pensieri attenti evitino di farci fare ciò che il terrorismo vorrebbe farci fare: e con due “racconti”. Il primo riguarda la storia di cristiani ed ex cristiani di questa Europa. Essi hanno smesso di uccidersi per un credo di Stato o per l’ateismo di Stato quando due processi si sono incontrati: quello che ha portato il pensiero critico a ripensare il potere pubblico e la sua funzione; uno che ha portato i cristiani a ripensare la chiesa, con quel movimento ecumenico che ha insegnato a desiderare che la chiesa come luogo delle diversità riconciliate.

A Bruxelles si sta pensando a un Museo della storia europea (che speriamo gemmi musei nazionali e musei virtuali circolanti): e, pena la sua irrilevanza, dovrà chiedere ai grandi intellettuali chiamati a pensarlo come raccontare questa parte di storia. Il secondo riguarda proprio l’Islam: i 15 milioni di musulmani europei, destinati a crescere per i normali flussi demografici, hanno diritto di sapere che la loro fede non è quel che credono di saperne piccole gang di dissoluti depressi, nutriti a wikicorano dal web, ma la grande tradizione di filosofie e di scienza. E qui l’Italia — a partire da Palermo, la capitale fredericiana di un mondo mai nato — avrebbe qualcosa di suo da fare: un museo dell’arte e della storia della scienza islamica, certo; ma anche un dipartimento di scienze dell’Islam dove si studi la storia della scienza, la filosofia della scienza e l’algebra, come perle e orgoglio di una civilizzazione che ha dato all’Occidente molto di ciò che è, e che può ancora dare alla pace che non sappiamo neppure desiderare.

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