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La Repubblica Rassegna Stampa
28.07.2015 Non ci raccontate che le violenze palestinesi a Gerusalemme sono nate dalle urla di una fanatica ebrea: era tutto organizzato
Commento di Alberto Flores D'Arcais

Testata: La Repubblica
Data: 28 luglio 2015
Pagina: 17
Autore: Alberto Flores D'Arcais
Titolo: «Gli insulti al Profeta, poi gli scontri. Aviya, la ragazza che divide Israele»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 28/07/2015, a pag. 17, con il titolo "Gli insulti al Profeta, poi gli scontri. Aviya, la ragazza che divide Israele", il commento di Alberto Flores D'Arcais.

L'idea che siano state le parole urlate da Aviya Morris a scatenare le violenze palestinesi sul Monte del Tempio/Spianata delle Moschee è palesemente infondata. E di conseguenza il titolo dell'articolo di Repubblica è un gioiello della disinformazione. Per due motivi:
1) Le urla offensive di Aviya, fanatica ebrea residente in West Bank, non sono giustificabili, ma sono venute dopo interminabili insulti e slogan antisemiti urlati da donne e uomini arabi  musulmani sulla Spianata.
2) Ma soprattutto: le parole - anche se insultanti - non giustificano mai la violenza.

A questo si aggiunga che il lancio di pietre e altri oggetti contro gli ebrei in preghiera e i militari israeliani che li proteggevano era organizzato con cura, con la Moschea di Al Aqsa trasformata in santabarbara. Non si è certo trattato di violenze spontanee innescate dalle urla di una fanatica come Aviya Morris.
Per farsi un'idea più chiara dei fatti e della dinamica della disinformazione su di essi, invitiamo a leggere l'articolo di Deborah Fait che pubblichiamo oggi stesso in altra pagina.

Ecco l'articolo:

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Alberto Flores D'Arcais, Aviya Morris

Aviya Morris ha 20 anni, idee fin troppo chiare e anche discutibili. Eroina o provocatrice, testa calda o mente lucida, fanatica o calcolatrice a seconda di chi ne parla, dall’ultimo week-end è una star del web, tv e radio fanno a gara per intervistarla, la polizia la sorveglia e gli arabi la minacciano. Divide Israele questa ragazza che un video “virale” ha reso famosa, grazie a un insulto in diretta al profeta dell’Islam che- spiegano adesso analisti e commentatori - è stata benzina sulle braci mai spente dell’odio atavico che mette gli uni di fronte agli altri gli ebrei e i musulmani che convivono (loro malgrado) nella più santa delle città. Il classico fiammifero che ha dato via all’incendio di domenica - nel giorno, sacro agli ebrei, del lutto e del digiuno - sulla Spianata delle Moschee.

Eccola lì nelle immagini un po’ mosse che urla qualcosa, la ragazza, vestita di bianco e fazzoletto celeste sul capo, attorniata da qualche amico e difesa da un paio di militari mentre un gruppo di donne islamiche (velo in testa anche loro) gridano a loro volta. Indirizza pesanti offese a Maometto, guardando fissa nell’obiettivo, incurante di quanto possa accadere e degli insulti che le piovono addosso. Viene da Shiloh Aviya, piccolo insediamento israeliano in Cisgiordania, costruito simbolicamente sui resti di quello che fu luogo di culto ebraico prima della costruzione del Tempio in quella che ancora oggi gli israeliani chiamano Samaria. Piccolo centro ma combattivo, con un leader riconosciuto come Raphael Morris che guida un movimento della destra ebraica “Ritorno al Monte” (dove il monte è quello del Tempio di Gerusalemme) che ha come programma la cacciata di tutti gli arabi dai luoghi santi dell’ebraismo.

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La moschea di Al Aqsa

Aviya di Raphael è la moglie, lo ha sposato ancora teen-ager e con lui divide religione, ideologia, passione e fanatismo. Ha solo venti anni ma nonostante la giovane età non è nuova alle cronache per il suo impegno da “ultrà” religiosa, tra sfide alla polizia israeliana e provocazioni anti- arabe ogni volta che le sembra possibile. Come quel giorno, aveva 17 anni, quando nella famosa università Bar Ilan di Tel Aviv affrontò durante un dibattito a brutto muso Ahmad Tibi, deputato arabo alla Knesset. E gli sputò in faccia. O quando, era il 2013, venne arrestata come sospetta partecipante agli atti di vandalismo compiuti contro il Monastero della Croce a Gerusalemme (costruito nell’XI secolo nel luogo dove, si racconta, era piantato l’albero servito per costruire la croce su cui morì Cristo) in cui comparvero nottetempo tre grandi scritte a spray sul muro principale: «Buona Hannuka», «Vittoria per i Maccabei», e pesanti offese a Gesù.

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Pacifici manifestanti?

Giovedì scorso, insieme ad altre donne, è voluta tornare (lo aveva fatto altre volte) sul Monte del Tempio. «È un nostro diritto, volevo dimostrare come in uno Stato democratico quale Israele i diritti degli ebrei non vengono difesi e i dimostranti musulmani possono fare quello che vogliono», racconta adesso alla radio dopo aver accettato l’intervista «solo con la presenza di mio marito Raphael». Accusa le donne musulmane («ci hanno insultato per un’ora, ci gridavano sgozzate gli ebrei, Allah è grande»), respinge le critiche di chi - ebreo e israeliano (e sono tanti) - l’ha definita una “provocatrice” per quell’insulto al Profeta che in tre giorni è diventato il manifesto di chi in campo islamico chiede vendetta. «Gli obiettivi del nostro movimento? Ricostruire il Tempio, sì esattamente dove c’erano quelli distrutti, perché gli ebrei hanno il diritto di pregare dove lo hanno fatto per millenni. La moschea? Basta moschee e basta “Allah akbar” e poi quella di al-Aqsa sta dall’altro lato».

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