venerdi 29 marzo 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


Clicca qui






La Repubblica Rassegna Stampa
18.01.2015 Essere ebrei in Francia oggi
Cronaca di Anais Ginori

Testata: La Repubblica
Data: 18 gennaio 2015
Pagina: 33
Autore: Anais Ginori
Titolo: «Vi racconto la paura di essere ebrei in Francia»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 128/01/2015, a pag.33, con il titolo " Vi racconto la paura di essere ebrei in Francia " la cronaca di Anais Ginori sul pericolo per gli ebrei francesi di vivere in un paese dove la violenza antisemita è sempre più in crescita.

Parigi- " All'inizio mi son detta passerà ". Ma la ferita non si rimarginava. «Non c’era niente da fare, guardavo la mia Francia che amavo tanto con occhi diversi. Era finita. Non potevo più restare nel mio paese come se niente fosse. Non sono partita per paura o perché vittima dell’antisemitismo. Ma per un chiodo fisso che non riuscivo a togliermi dalla testa. L’idea che in Francia si possa morire perché sei ebreo è diventata per me semplicemente insopportabile. È un’aberrazione che non posso più accettare». L’Aliyah, ovvero “l’ascesa”, “l’emigrazione”, il ritorno di Virginie Bellaïche è cominciato il 19 marzo 2012 con le immagini di un uomo con il casco, Mohammed Merah, davanti alla scuola Ozar Hatorah di Tolosa. Il grido: “Allah Akbar” . Il rabbino Jonathan Sandler, trent’anni ucciso, insieme ai due figli, Arieh e Gabriel, cinque e quattro anni. Una bambina bionda, Myriam Monsonego, sette anni, a cui Merah spara alla tempia. Sono ormai sedici mesi che Virginie si è trasferita in Israele. E c’è una terribile ironia della sorte nel suo ultimo rientro in patria da allora. Era tornata a Parigi il cinque gennaio scorso. Qualche giorno di vacanza, il saluto ai genitori che non avevano capito quando aveva annunciato la partenza per Israele, a trentasette anni, con il marito e le due figlie, abbandonando lavoro, amici, una casa nel diciassettesimo arrondissement. Virginie è tra le migliaia di ebrei che hanno lasciato la Francia negli ultimi anni. L’attentato di Tolosa fu uno spartiacque: tremila nel 2013, settemila nel 2014 e quest’anno, dopo gli attentati, l’agenzia ebraica prevede più di diecimila nuovi immigrati. Non era mai successo dal 1948, anno di creazione dello Stato di Israele. La madre di Virginie aveva pianto. «Pensaci bene prima di mollare tutto» era stata la sua inutile preghiera. All’epoca, Merah, come tutti chiamano gli attentati, poteva sembrare ancora un episodio isolato, per quanto atroce. Una barbarie racchiusa in una parentesi. Per due anni e mezzo la comunità ebraica francese, la più numerosa d’Europa, ha sperato fosse così. «Non può succedere ancora» dicevano i genitori di Virginie. E invece sì. Mercoledì sette gennaio due uomini hanno fatto strage nella redazione di un settimanale satirico urlando di nuovo “Allah Akbar”, e lasciando dietro di sé dodici vittime. Quarantotto ore dopo, alle tredici di venerdì nove gennaio. Amédy Coulibaly è entrato nell’Hyper Cacher di Porte de Vincennes. Ha ucciso in pochi minuti quattro persone, anzi: quattro ebrei venuti a fare la spesa alla vigilia di shabbat. «Sono morti perché ebrei. Succede in Francia, nel 2015. È accaduto ancora», ripete Virginie. L’assedio, i morti e le facce stravolte degli ostaggi, e poi le preghiere alla Sinagoga. Un altro pomeriggio come quel 19 marzo del 2012. Un altro pomeriggio davanti alla tv a pensare che potevo essere io dentro a quella scuola, dentro a quel supermercato kosher. Virginie realizza di essere tornata per rivivere ciò da cui aveva provato a fuggire, mettendo la sua vita parigina e il suo “chiodo fisso” dentro a un container diretto a Ra’anana, nord est di Israele. Il 31 luglio 2013 Virginie atterrò all’aeroporto di Tel Aviv. All’arrivo trovò subito i documenti come nuova cittadina israeliana. Per preparare la sua carta d’identità, la funzionaria del ministero dell’Integrazione le chiese: «What’s your name?». Lei ci pensò qualche secondo. Avrebbe potuto scegliere un nome ebreo, come fanno quasi tutti gli “olim”, i nuovi immigrati. “Virginie”, che andava di moda nella generazione di francesi nate negli anni Settanta, in fondo non le era mai piaciuto. «Virginie Bellaïche», rispose lo stesso. «Ho cambiato paese, ma sono sempre io. Nonostante l’Aliyah, il cambiamento più importante della mia vita, conservo la mia identità, le mie qualità e i miei difetti». La terra promessa non è dolce come se l’aspettava, anche se l’agenzia ebraica a Parigi ha agevolato il trasferimento con mezzi e fondi. Virginie parla ancora male ebraico nonostante l’”oulpan”, il corso di lingua offerto dallo Stato. Non ha ritrovato un lavoro. Suo marito Laurent, avvocato, non può ancora esercitare la professione, dovrà passare un esame per ottenere l’equivalenza del titolo. Virginie ha messo da parte l’orgoglio, accettando impieghi sottopagati. «Una donna delle pulizie guadagna più di me che ho studiato e ho tante esperienze professionali». A Parigi, Virginie si occupava di community management su Internet. Aveva collaborato con una radio della comunità ebraica, intervistando le famiglie che partivano per l’Aliyah. Per anni è stata un’ipotesi remota, lontana. Virginie era stata in Israele solo per le vacanze, senza particolari slanci. «L’Aliyah comincia con una certezza. Per alcuni è profonda, antica. Si è formata in una famiglia sionista, è maturata negli anni, attraverso la scuola ebraica, i movimenti di gioventù. Per altri, co- me me, è una certezza recente e tormentata». Virginie non voleva andare a vivere a Gerusalemme, perché «troppo religiosa». Esclusa anche Tel Aviv, «poco adatta alle famiglie». Ra’anana è stata una scelta di compromesso. È una media città di ottantamila abitanti dove, dice la nuova immigrata, si può condurre un’esistenza «tranquilla». «Di Parigi mi manca la possibilità di andare in un cinema diverso ogni sera, mi manca il metrò, la musica. Di Parigi mi manca tutto, è lì che sono nata e cresciuta pensando che non me ne sarei mai dovuta andare». «È un sacrificio», dice ancora. «L’ho fatto per le mie figlie, affinché non vivano mai momenti di terrore come quelli che ho vissuto io nel marzo 2012. Molti dicono che Israele non è un paese sicuro. È vero. Ma morire laggiù perché sei ebreo, solo perché sei ebreo, almeno ha più senso». L’estate scorsa, quando è riscoppiata la guerra tra Israele e Hamas, Virginie ha trascorso lunghe notti nei rifugi con le due figlie, Anouk e Adèle, di sette e due anni. «Ci si abitua». Se fosse rimasta a Parigi, aggiunge, avrebbe trovato in questi giorni i militari a presidiare l’ingresso di scuole, sinagoghe, e qualsiasi altro luogo frequentato dalla comunità. «Ma non si può avere un poliziotto per ogni ebreo» commenta Virginie. «La Francia senza gli ebrei non è la Francia» ha detto il premier Manuel Valls dopo l’attacco del nove gennaio, mentre Benjamin Netanyahu ha lanciato un appello alla comunità per “tornare a casa”. Virginie non vuole entrare nel dibattito politico in corso, segnato da un’ostilità latente che si insinua ormai tra i suoi due paesi. «Prima della mia Aliyah mi dava molto fastidio sentire dire da chi partiva che gli ebrei non hanno più nulla a che fare con la Francia. Mi astengo quindi da commenti del genere. Dico solo che per me era il momento. Non giudico quelli che restano». Virginie sottolinea come l’11 Settembre francese non sia il piano di terroristi venuti dall’Afghanistan o dall’Arabia Saudita. I fratelli Kouachi e Coulibaly sono come lei, trentenni francesi cresciuti in questo paese. Hanno imparato a leggere e scrivere nelle scuole della République, almeno una volta avranno dovuto sfogliare un libro di Voltaire o Victor Hugo. «Non so che pensare sul futuro degli ebrei in Francia. Ripeto solo quello che sento io da cittadina francese: ho smesso di crederci». I suoi nonni sono venuti dall’Algeria nel dopoguerra. «Se gli avessero detto che cinquant’anni dopo non ci sarebbero stati stati quasi più ebrei in Algeria non ci avrebbero creduto». Virginie sa che almeno per la sua famiglia l’Aliyah è una scelta irreversibile. Per darsi forza, ripete spesso una frase che le diceva la nonna: «Vai dove vai, muori dove devi». Tra qualche settimana, si sentirà meno sola. Dopo gli attentati della settimana scorsa, i suoi genitori inizialmente refrattari hanno deciso pure loro di fare l’Aliyah. Si trasferiranno a Netanya, non lontano da Ra’anana. «Mi dispiace, mi ha detto mia madre, ma anche io non credo più alla Francia». Quella della barbarie, è una parentesi che non si chiude mai.

Per inviare alla Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/ 49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT