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La Repubblica Rassegna Stampa
24.11.2014 Cinema israeliano: Viviane e la lotta per il divorzio
Recensione di Natalia Aspesi

Testata: La Repubblica
Data: 24 novembre 2014
Pagina: 46
Autore: Natalia Aspesi
Titolo: «Storia di Viviane»

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 24/11/2014, a pag. 46, con il titolo "Storia di Viviane", la recensione di Natalia Aspesi al film "Viviane", diretto da Ronit e Shlomi Elkabetz.


Natalia Aspesi   Ronit e Shlomi Elkabetz

Viviane vuole il divorzio: da mesi ha lasciato il tetto coniugale ed è andata a vivere da un fratello sposato; fa la parrucchiera, non vuole soldi, desidera solo divorziare da dieci anni, da cinque si è decisa a chiederlo. Ma vive in Israele, nazione democratica dove però matrimonio e divorzio sono solo religiosi (anche in Italia sino al 1970, esisteva solo l’annullamento ecclesiastico, difficilissimo da ottenere). Davanti al tribunale rabbinico, la donna può chiedere il divorzio, ma solo il marito può concederglielo, facendole cadere nella mani il Gett, il foglio con il suo consenso, pronunciando la frase “da adesso sei permessa a qualunque uomo”, come un oggetto senza valore che può passare da un padrone all’altro. Viviane è uno di quei film miracolosi in cui sembra non succedere niente e invece avvince con momenti drammatici e ironici, con una intensa sceneggiatura e attori eccezionali: specialmente lei, Viviane, l’attrice Ronit Elkabetz, che è anche sceneggiatrice e regista del film assieme al fratello Shlomi. Una stanzetta bianca con due tavolini e quattro sedie, per i coniugi e i rispettivi avvocati, alla loro destra il computer del cancelliere, di faccia il tavolo con i tre giudici rabbini; in quello spazio claustrofobico passano gli anni della disperazione di Viviane e della ferrea ostinazione del marito Elisha, che non si presenta oppure se c’è, dopo essere stato condannato a una settimana di carcere per oltraggio alla corte, dice sempre no. La battaglia tra Viviane ed Elisha (Simon Abkarian) e tra i due difensori, per lui il fratello Shimon (Sasson Gabay), per lei il bell’avvocato Carmel (Menache Noy) è fatta di parole, di silenzi, di sguardi: irridenti, inflessibili, torvi quelli del marito, sofferenti, ostinati quelli di lei. Viviane ha una bellezza nobile e stanca, un viso pallido e intenso, meravigliosi capelli neri, che la religione considera un’arma di seduzione scandalosa, raccolti sulla nuca e che in un momento di stanchezza e sfiducia lei scioglie e accarezza, un gesto sfrontato davanti ai rabbini che la richiamano immediatamente. Anche gli abiti segnano il crescere della sua insofferenza e voglia di ribellione. Prima vestita castamente di nero e in pantaloni, poi con una camicia bianca femminile, e ancora con le belle gambe nude e i tacchi alti o con una fiammeggiante camicia rossa. Alla fine porterà delle babbucce piatte, come per affrontare un futuro di libertà ma anche di rinuncia. Le udienze si susseguono, due mesi dopo, sei mesi dopo, due settimane dopo, per anni, mentre la vita di Viviane si consuma: accetta di riprovare a vivere col marito ma non ce la fa. “Lui non mi parla”. I rabbini la chiamano donna, vogliono sapere se è stata pura durante la separazione, accusano il suo avvocato di amarla: un testimone dice “questa donna non è retta, l’ho vista in un caffè con un uomo che non era un parente”. I testimoni dicono che lui è un marito perfetto, anche i vicini di casa, ed è lui a rispondere anche per lei. “Per vent’anni ho curato sua madre che mi odiava”, dice Viviane, “anche lui mi odia”. Sì certo, dice il responsabile della sinagoga, “è un po’ pignolo, da 15 anni non parla con un altro fedele per una nota sbagliata, anche se quello gli ha chiesto tante volte scusa”. Viviane: “Lui non mi tocca da anni, non gli va mai bene quello che cucino, non vuole amici. Siamo incompatibili”. Non basta, donna. “Una donna ha bisogno del pugno di ferro” dice il di lei fratello”, “ma era felice?” chiede l’avvocato. “No, soffriva molto”. All’ennesimo no di Elisha, Viviane perde la calma, grida contro i rabbini. “Siete senza misericordia, ma vi toglieranno il potere, tribunale di merda!”. Anni di parole inutili, di ipocrisia, di negazione dei diritti della donna, di supremazia maschile in nome della religione. Dice Ronit Elkabetz: “Il tempo perduto in questi procedimenti ha valore solo per la donna che supplica di tornare a vivere. Fino a quando non ottiene il divorzio non potrà mai ricostruirsi una famiglia e i figli fuori dal matrimonio non avranno riconoscimenti giuridici. Una donna in attesa di divorzio è condannata a una sorta di prigione”. Viviane è l’ultima parte di una trilogia i cui precedenti film non sono stati distribuiti in Italia. Israele l’ha candidato per l’Oscar al film straniero: nel 2012 lo ha vinto un altro film israeliano, il bellissimo Una separazione.

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