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La Repubblica Rassegna Stampa
01.10.2014 Petrolio: Usa primi produttori al Mondo, superata anche l'Arabia Saudita
Analisi di Federico Rampini

Testata: La Repubblica
Data: 01 ottobre 2014
Pagina: 17
Autore: Federico Rampini
Titolo: «Più petrolio dei sauditi e il sorpasso diventa la nuova arma degli Usa»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 01/10/2014, a pag. 17, con il titolo "Più petrolio dei sauditi e il sorpasso diventa la nuova arma degli Usa", l'analisi di Federico Rampini.

Federico Rampini

Un pozzo di petrolio in Texas, Usa
Il dollaro alza ai massimi da quattro anni verso le altre valute mondiali, le cause sono tante (c’è più crescita negli Usa e le crisi geopolitiche da Hong Kong all’Ucraina restituiscono all’America il ruolo di rifugio per i capitali), ma ne spunta una nuova: il dollaro va considerato una “petrovaluta”. Alla stregua della corona norvegese, il suo valore è sostenuto dalla ricchezza energetica. Il sorpasso annunciato dell’America sull’Arabia saudita nell’estrazione di petrolio, diventa realtà. Già previsto dall’Agenzia internazionale per l’energia nell’ottobre 2013, si sta realizzando in questi mesi: alla fine dell’estate il totale del greggio prodotto negli Stati Uniti ha affiancato a 11,5 milioni di barili al giorno la produzione saudita; da ottobre in poi l’allungo americano farà finire in vantaggio gli Stati Uniti prima della fine dell’anno.
L’abbondanza dell’oro nero che sgorga dal suolo Usa, sta già provocando conseguenze sui mercati. Le quotazioni del greggio sono ferme o in calo da molte settimane nonostante la guerra in Siria. L’Opec s’interroga se tagliare la produzione per evitare una caduta ulteriore dei prezzi; ma il “cartello” non ha più il potere monopolistico di una volta, oggi è un attore fra tanti. Le conseguenze del sorpasso, l’emergere della nuova “America saudita”, così battezzata su Repubblica un anno fa, ha conseguenze geostrategiche: tanto più in una fase in cui proprio l’Arabia Saudita si distingue come un alleato-chiave per Barack Obama nell’offensiva contro lo Stato Islamico in Iraq e in Siria. Dal Medio Oriente alla Russia, tanti sono i potentati energetici destinati a perdere centralità e potere di ricatto. La Cina si scopre molto più dipendente dal Golfo Persico proprio mentre gli Stati Uniti si avvicinano all’autosufficienza (se si tiene conto anche del gas, del nucleare e delle rinnovabili). Aggiungendo il boom dell’estrazione in Canada, Brasile, Colombia, è il “secolo delle Americhe” quello che si apre sul piano energetico.
Anche per l’ambiente le ricadute sono importanti. È stata smentita la previsione del “peak oil” che dominò i dibattiti per decenni dal primo rapporto del Mit-Club di Roma sui “Limiti dello Sviluppo” (1971): cioè il calcolo che da una certa fase in poi la produzione di petrolio sarebbe stata in declino per l’esaurirsi delle riserve. La variabile che ha scompaginato tutti i calcoli è il progresso tecnologico. È la chiave del boom americano legato alle nuove tecniche di estrazione: trivellazione orizzontale e “fracking” cioè l’uso di potenti getti di acqua e solventi chimici per separare l’energia (petrolio o gas) da rocce e sabbie. È in questa applicazione estesa delle nuove tecnologie che si trova la spiegazione di quel che avviene sui mercati: dal 2012 ad oggi il barile di greggio è sceso da 125 a 95 dollari. L’aumento dell’offerta sui mercati mondiali, pari a 3,5 milioni di barili al giorno, è dovuto quasi interamente alla produzione aggiuntiva degli Stati Uniti.
Quello che non è ancora accaduto: gli Stati Uniti si sono trattenuti dall’usare il petrolio e il gas come arma politica internazionale. Di fronte ai possibili ricatti di Vladimir Putin verso l’Ucraina e l’Unione europea, Washington ha reagito con vaghe promesse di aumentare le proprie esportazioni verso il Vecchio continente. Ma finora l’export dagli Usa resta modesto. In parte perché occorre costruire nuove infrastrutture, in un paese che non era abituato al ruolo “saudita”. Ma un’altra ragione è il formidabile vantaggio competitivo che l’eccesso di energia regala all’industria Usa, riducendo i suoi costi di produzione. Potenti lobby industriali hanno fatto campagna al Congresso per impedire o rallentare le licenze all’export.
Il peso della nuova realtà energetica si fa sentire nella politica interna americana. Sono in aumento esponenziale i finanziamenti elettorali legati ai due “partiti energetici” che si oppongono in vista delle elezioni di mid-term. Da una parte la lobby carbonica dei fratelli Koch sostiene i candidati di destra favorevoli a una liberalizzazione estrema del “fracking”; dall’altra le organizzazioni ambientaliste come il Sierra Club, grazie alle donazioni dei militanti cercano a loro volta di pesare nel risultato delle legislative di novembre, appoggiando i candidati che s’impegnano a regolamentare l’estrazione. Il “peak oil” resta attuale non come esaurimento fisico dei giacimenti, ma come limite imposto per rallentare il cambiamento climatico.
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