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La Repubblica Rassegna Stampa
30.09.2014 Il jihadista della porta accanto
Commento di Enrico Franceschini

Testata: La Repubblica
Data: 30 settembre 2014
Pagina: 36
Autore: Enrico Franceschini
Titolo: «Il jihadista in casa»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 30/09/2014, a pagg. 36-37, con il titolo "Il jihadista in casa", il servizio di Enrico Franceschini.
Verso la fine del pezzo vengono riportate le opinioni sul Medio Oriente di Paddy Ashdown, ex leader del partito liberaldemocratico inglese. Oltre ad auspicare una piena ripresa del dialogo con l'Iran - la potenza mediorientale che più di ogni altra da oltre trent'anni appoggia e finanzia numerosi gruppi terroristici, a partire da quelli palestinesi -, Ashdown considera "l'occupazione illegale" del West Bank da parte di Israele "la miccia di ogni conflagrazione mediorientale". Forse Ashdown considera "occupazione illegale" l'esito di una guerra difensiva, non la prima né l'ultima, in cui Israele ha sbaragliato i suoi aggressori nel 1967. Aberrante.

"Sai che bandiera è questa?"
"Sì, era la bandiera inglese prima che il Regno Unito diventasse una Repubblica islamica"
Ecco l'articolo:

Enrico Franceschini   David Cameron                    Paddy Ashdown
«Donate una sterlina per i profughi siriani», sta scritto in inglese e in arabo sui volantini. Il giovane barbuto dalla pelle scura che li distribuisce indossa un lungo caffettano: «Allah Akbar», Allah è grande, mormora ogni volta che un fedele getta monete nel secchio ai suoi piedi. Dietro di lui risplende una cupola dorata, identica a quella che ricopre la celebre moschea della Roccia a Gerusalemme. Tutto intorno, uomini con la kefiah colorata e donne con veli di diversa gradazione, dal chador al burqa, pregano rivolti verso la Mecca.
Potremmo essere al Cairo, a Damasco, a Bagdad, invece siamo alla Central Mosque, la più grande moschea di Londra, dove ogni venerdì, giorno di festa degli islamici, si ripetono gli stessi riti. Stavolta, tuttavia, la presenza di poliziotti in uniforme, apparentemente per regolare il traffico su Park road, sembra più massiccia, come sono più numerosi i giornalisti, fotografi e cameraman. Scrutando il ventenne con i volantini, è inevitabile interrogarsi: a chi andranno quelle sterline per i “profughi siriani”? Lavora per una ong o si è arruolato nelle file dell’Is, lo Stato Islamico che combatte per creare un Califfato in Iraq e in Siria?
Nello stesso giorno, più o meno alla stessa ora, lo stesso genere di dubbi circolava nell’aula della camera dei Comuni, dove il primo ministro David Cameron ha ottenuto a stragrande maggioranza, con il sostegno dell’opposizione laburista, l’approvazione all’entrata in guerra del Regno Unito contro l’Is a fianco degli Stati Uniti e dei loro alleati. Poco dopo i primi bombardieri della Raf hanno cominciato a sganciare missili sull’Iraq. «Abbiamo il dovere di intervenire, perché questi barbari, questi psicopatici, minacciano le nostre strade», ha detto il premier britannico nel suo discorso in Parlamento. Non si riferiva solo agli ostaggi inglesi e occidentali decapitati uno dopo l’altro dagli estremisti islamici nei loro covi mediorientali, bensì al pericolo di attacchi terroristici in patria. Un attentato in Europa è «inevitabile», affermano i responsabili della sicurezza della Ue. La scorsa settimana, undici persone sono finite agli arresti in base alle leggi anti-terrorismo a Londra e nove a Madrid. Già a fine agosto l’Inghilterra aveva alzato il suo livello di allarme da «sostanziale» a «severo», il penultimo grado più alto, secondo cui un attentato è «altamente probabile» (anche se non «imminente»). Ora il timore delle autorità è che i musulmani britannici andati a combattere per l’Islamic State rientrino nel Regno Unito per compiere attacchi sul suolo natio: rispondendo ai bombardamenti dal cielo con il terrore «nelle strade» evocato da Cameron. Secondo il primo ministro sarebbero almeno 500 i «jihadisti britannici» attualmente in Iraq e Siria (il presidente Obama parla di 15 mila jihadisti provenienti da tutto l’Occidente); e altri 250 avrebbero già fatto ritorno a Londra. Il ministro della Difesa Michael Fallon ha rivelato ieri che 60 di questi sono stati arrestati appena hanno rimesso piede in Inghilterra. Ma gli altri? Qualcuno potrebbe essere fra i giovani che distribuiscono volantini ai fedeli davanti alla Moschea Centrale di Park road. Come il ragazzo barbuto che chiede fondi per i “profughi” in Siria. «È ripugnante che cittadini britannici possano ritornare nel nostro Paese e porre una minaccia alla sicurezza nazionale», afferma il premier conservatore. Quello del “terrorista della porta accanto” è un incubo ricorrente per la Gran Bretagna. Per trent’anni ha avuto il volto del-l’Ira, l’esercito clandestino repubblicano che lottava per l’indipendenza dell’Irlanda del Nord, autore di non pochi sanguinosi attentati in Inghilterra e nella stessa capitale. Quindi, dopo che nel luglio 2005 quattro kamikaze islamici si fecero saltare in aria nella metro di Londra causando 60 morti e 700 feriti, ha assunto l’aspetto di Al Qaeda, lo spettro che ha spaventato l’Occidente, e provocato due guerre, a partire dall’attentato dell’11 settembre 2001 contro le Torri Gemelle di New York. Ma il “jihadista della porta accanto” rappresenta una minaccia ancora più grave dei terroristi di Al Qaeda. Arruolarsi nelle file di un esercito che combatte per costruire un califfato in Medio Oriente è un gesto più romantico che infilare una cintura di esplosivo e farsi esplodere tra donne e bambini. Per un giovane musulmano che si sente inutile, frustrato e depresso in Gran Bretagna, la “guerra santa” può costituire un richiamo accattivante. E non lo costringe a rinunciare alla famiglia, all’amore, alla vita – almeno non subito, non necessariamente. Perciò partono in tanti. Molti di più di quanti si sono votati al suicidio nelle cellule di Al Qaeda a Londra, Madrid, New York negli ultimi quindici anni.
È questa minaccia a generare consenso per le misure del governo britannico. La decisione di entrare in guerra ha avuto l’approvazione del 70 per cento degli inglesi. Una percentuale analoga aveva accolto favorevolmente le proposte per impedire ai jihadisti di rimpatriare: controlli delle liste dei passeggeri, ritiro dei passaporti, spionaggio più intrusivo. Ma non mancano le critiche. «Più che reprimere serve prevenire», osserva Harun Khan, vicesegretario generale del Muslim Council of Britain, l’associazione che rappresenta due milioni di musulmani britannici, la maggior parte dei quali sono cittadini pacifici e rispettosi della legge. «Le autorità dovrebbero cercare di capire cos’è che spinge dei ragazzi in tale direzione. E parte del problema è proprio il continuo perorare la causa del controllo, della vigilanza, della privazione di diritti in nome della lotta al terrorismo. Ecco cosa spinge tanti giovani islamici britannici a radicalizzarsi». Concorda Ghaffar Hussain, direttore della Quillam Foundation, think tank londinese di studi islamici: «Il governo Cameron ha una politica anti-terrorismo ma non ha una politica antiestremismo. Punta a bloccare la gente che si radicalizza, ma una volta che un giovane si radicalizza è spesso tardi per bloccarlo. La chiave è fermarlo prima».
Non sono solo i rappresentanti dei musulmani a sollevare obiezioni. Richard Barrett, ex capo dell’antiterrorismo all’-MI6 e all’MI5 (i servizi di spionaggio e controspionaggio britannico), si sdegna per l’idea lanciata dall’ambizioso sindaco di Londra, Boris Johnson, di assegnare una «presunzione di colpevolezza» a tutti i britannici che si recano in Iraq o in Siria. «La presunzione d’innocenza è un cardine della nostra democrazia», osserva l’ex agente segreto, «sarebbe gravissimo sospenderla in nome di minacce non provate». Il complotto scoperto in primavera nelle scuole di Birmingham, di cui fondamentalisti islamici si stavano impossessando per radicalizzare gli studenti e allevare piccoli jihadisti, dimostra che bisognerebbe fare qualcosa per stroncare il fenomeno. Ma cosa? Il dilemma non è semplice per il Paese che nel 1215 sancì l’“habeas corpus”, prima garanzia che non si può essere accusati senza motivo, e che dal 1866 ospita lo Speakers Corner, l’angolo di Hyde Park dove a tutti è concessa libertà di parola, inclusi a suo tempo Marx e Lenin. Un Paese che per i musulmani è diventato una sorta di seconda patria comoda e civile, per quelli ricchi che fanno shopping da Harrods (i grandi magazzini fino a qualche anno fa di proprietà dell’egiziano Mohammed al Fayed e ora del Qatar) e per quelli poveri che emigrano qui dal Pakistan o dal Nord Africa. Tanto da far ribattezzare la sua capitale Londonistan.
«Il problema non si risolve internamente, bensì internazionalmente», ammonisce Paddy Ashdown, ex leader del partito liberaldemocratico. Non allude solo all’intervento militare, ma a una ripresa del dialogo con l’Iran (Cameron ha incontrato nei giorni scorsi all’Onu il presidente Rohani, primo contatto diretto con un leader iraniano dalla rivoluzione khomeinista del 1979), a pressioni su Arabia Saudita e Qatar affinché interrompano i finanziamenti (diretti o indiretti) all’estremismo e a «una soluzione alla questione che resta la miccia di ogni conflagrazione mediorientale, l’occupazione illegale della Cisgiordania palestinese da parte di Israele».
Non è chiaro se la guerra, destinata a durare “anni” secondo Obama e Cameron, farà scomparire i jihadisti della porta accanto. Né cosa vogliano veramente i giovani barbuti che distribuiscono volantini davanti alla Central Mosque di Londra, invocando Allah quando un fedele getta una sterlina nel secchio.
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