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La Repubblica Rassegna Stampa
26.07.2014 Michael Walzer non condanna Israele: quando il titolo non rispecchia il contenuto dell'articolo
Intervista di Alix Van Buren al teorico della 'guerra giusta'

Testata: La Repubblica
Data: 26 luglio 2014
Pagina: 15
Autore: Alix Van Buren
Titolo: «'Un conflitto folle per Israele Hamas ne uscirà più forte'»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 26/07/2014, l'intervista di Alix Van Buren a Michael Walzer dal titolo "'Un conflitto folle per Israele Hamas ne uscirà più forte' "

Il titolo dell'intervista non rispecchia il pensiero di Walzer, che esprime dubbi, ma non condanna la guerra contro Hamas, e ricorda che i critici di Israele dovrebbero indicare un'alternativa per far fronte alla minaccia terroristica.



Michael Walzer

«I teorici della “guerra giusta” e gli strateghi militari s’affannano a sbrogliare il dilemma morale che pone la guerra di Gaza. Il primo interrogativo è questo: in che modo combattere un nemico come Hamas? E cioè asserragliato in un territorio sovrappopolato, in un’area tanto stretta? Deve esistere un modo di condurre la battaglia che sia accettabile sotto il profilo morale. È il rovello dei teorici della guerra, in queste ore». Se c’è uno studioso acuto, in grado di misurarsi con le grandi questioni etiche e morali, quello è proprio Michael Walzer: il suo contributo forse più illustre di un’intera vita da filosofo, è l’aver ripescato il concetto di “guerra giusta” (“Guerre giuste e guerre ingiuste”, 1977) senza cedere al pacifismo. Eppure stavolta Walzer, al telefono da Harvard, riguardo alla guerra di Gaza esita.
Professore Walzer, quali sono le sue perplessità? Perché, come altri intellettuali, lei finora non s’era espresso?
«Beh, io avrei preferito scrivere a guerra conclusa, quando il quadro si fosse chiarito. Ma per rispondere alla sua domanda, dietro all’esitazione c’è un insieme di sentimenti: ci sono lo sbigottimento di fronte a quel che accade, forse l’assuefazione all’infinito ripetersi del conflitto, l’imbarazzo nell’affrontare delicate questioni morali. Quanto a me, io sono terribilmente depresso. Il preludio della guerra resta fumoso, le spiegazioni offerte da Israele e da Hamas sono contrastanti. E poi, la condotta della guerra resta molto problematica».
 A cosa si riferisce in particolare?
«Penso al quesito fondamentale: come si combatte un nemico che ha le caratteristiche di Hamas? Come si conduce una guerra che miete tante vittime civili, e nella quale ogni singola vittima civile si trasforma in una vittoria per Hamas e in una sconfitta per Israele? Un conflitto folle in cui più infliggi perdite al nemico, e più perdi? La soluzione non è facile. Israele deve rispondere a queste domande. Però, anche i critici di Israele devono indicare un’alternativa, ma la maggior parte di essi si sottrae».
Lei appunta delle responsabilità? «Le appunto a entrambe le parti, sia a Hamas sia a Israele. A Hamas in primo luogo e gli addosso la colpa d’aver causato la morte di civili usati come scudi umani, d’aver lanciato razzi nei dintorni delle scuole. Ma tanti altri palestinesi sono rimasti uccisi nei combattimenti, senza che siano serviti da scudo. Perciò attribuisco la responsabilità in secondo luogo a Israele, che ha l’obbligo di ridurre al minimo le perdite fra i civili».
Israele ha lanciato tre operazioni, dal 2008 a oggi, per “spazzare via” Hamas, ognuna con un pesante costo in vite umane. Però nessuna è stata risolutiva. Lei vede una differenza nel conflitto in corso?
«È vero, Hamas resta al suo posto. L’unica differenza notevole è che a ogni cessate il fuoco Hamas si dota di nuovi tunnel, di razzi più numerosi e dalla gittata più lunga. Non resta quasi più angolo di Israele al riparo dai tiri. D’accordo, i razzi non sono particolarmente efficaci in termini balistici, ma se parliamo di tattica, sono estremamente efficienti nel terrorizzare un’intera popolazione, quella israeliana, costretta a correre verso i rifugi. Ma se parliamo di “spazzare via” Hamas, io non sono tanto sicuro che Netanyahu voglia davvero farlo».
 Vale a dire?
«La presenza di Hamas regala a Netanyahu una scusa per non procedere alla creazione di uno Stato palestinese. La vera intenzione del primo ministro israeliano è quella di indebolire Hamas, non di sostituirlo. Infatti, chi governerebbe al suo posto a Gaza? Un movimento ancora più radicale? La Jihad islamica? o magari l’Isis (il gruppo jihadista Stato islamico in Iraq e Siria, ndr )? L’obiettivo di Netanyahu è più limitato: fiaccare Hamas quanto basta per ottenere un paio di anni di quiete».
Fino a due settimane fa Hamas s’era messo da sé alle corde. Isolato, già indebolito, privo di fondi, i suoi appelli ai palestinesi in vista di una terza intifada erano rimasti inascoltati. E adesso invece la sua popolarità aumenta, i palestinesi di Cisgiordania insorgono. Secondo lei, l’operazione di Netanyahu rischia di rivelarsi un boomerang?
«È proprio così: il premier israeliano sta ottenendo il contrario rispetto a quanto si era prefissato. Ora Hamas si è rafforzato, oltre a Gaza, anche in Cisgiordania. Mentre Fatah, che dovrebbe essere il primo interlocutore di Netanyahu, ne esce indebolito. In più, Israele sta perdendo la battaglia nell’arena dell’opinione pubblica internazionale. Fino a poco fa contava su un sostegno molto ampio. A ogni nuova vittima civile, quell’appoggio evapora».
Lei teme una nuova ondata di antisemitismo?
«In America, dove io mi trovo, questo rischio non c’è. Il sostegno a Israele è forte, per molti motivi. Il pericolo è invece più verosimile da voi, in Europa, dove resistono radici del passato. Nelle manifestazioni di questi giorni l’antisemitismo di vecchio stampo a volte si sovrappone alle proteste indirizzate a Israele. Già si vedono riemergere tracce di nazionalismi nazi-fascisti, o di antiche origini cristiane. Però, malgrado il rischio, io non generalizzerei. Ogni Paese in Europa è diverso dall’altro».
Che cosa teme, allora?
«Piuttosto, in cima alle mie preoccupazioni c’è qualcos’altro: la situazione immediata in Medio Oriente. Lì l’orizzonte è cupissimo, davvero, da qualsiasi angolo lo si osservi».

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