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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Rassegna Stampa
01.10.2016 Shimon Peres: In Memoriam
Commento di Fiamma Nirenstein

Testata:
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Israeke perde i fondatori ma le radici restano salde»

Continuano oggi, 01/10/2016, le cronache del funerale di Shimon Peres. Paci sulla Stampa, Battistini sul Corriere della Sera, Scuto su Repubblica ecc.
IC riprende dal GIORNALE il commento di Fiamma Nirenstein, che aggiungendosi alle pagine pubblicate ieri, dà un quadro completo ed equilibrato sulla figura del Presidente scomparso.
Segnaliamo per dovere di cronaca come le parole di Obama sono state descritte su diversi giornali come una critica a Israele e in particolare a Netanyahu, mentre la stretta di mano tra Bibi e Abu Mazen è stata vista in modo positivo soltanto nei confronti di quest'ultimo. Del tutto ignorato l'invito di Netanyahu a Abu Mazen a tenere un discorso alla Knesset, un atto che sarebbe stato giudicato - come avvenne con Sadat- portatore di una vera volontà di di pace. Naturamente rifiutato. Ma ai nostri media non è parsa una notizia interessante e l'hanno ignorata.

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Ecco il commento di Fiamma Nirenstein:

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Fiamma Nirenstein

E' stato triste dawero per tutta quella folla di politici, leader, teste coronate, da Obama a Hollande, da Clinton a Carlo d'Inghilterra, a Donald Tusk, al re Felipe, a Tony Blair e quant'altri mai che con i loro settanta aerei sono piombati all'aeroporto Ben Gurion, dare l'ultimo saluto a Shimon Peres. Sì certo, il dialogo politico filtrava fra le lacrime: importante è stato che Bibi Netanyahu abbia stretto la mano ad Abu Mazen, che Sara lo abbia invitato a cena. Brutto invece che gli arabi israeliani che siedono alla Knesset abbiano deciso di disertare un evento di questa portata. Ma più forte è stata la memoria di tutti gli oratori: Netanyahu, il presidente Rubel Rivlin, i tre figli di Peres, Amos Oz, Barack Obama. Quest'ultimo ha spinto la sua identificazione con Peres fino a sovrapporre, con slancio poetico davvero inaspettato, la sua biografia di girovago, meticcio, gente del mondo con quella del polacco Shimon Persky immigrato a 11 anni. Ora che Peres se ne è andato salendo con le auto lungo la strada dall'aeroporto a Gerusalemme, ora in via di rapido raddoppiamento contro un traffico frenetico, tutti i Grandi del mondo spiavano il paesaggio circostante per misurare la propria nostalgia sul cambiamento del paesaggio umano e geografico. Peres è stato l'ultimo dei padri fondatori, un eroe d'Israele, e questo lo hanno detto tutti; è colui che non ha mai mancato un appuntamento con la speranza di pace e neppure con la dura difesa del suo piccolo Paese. A parte la costruzione del reattore atomico di Dimona, la costruzione dell'esercito di cui Ben Gurion lo incaricò, ha sempre scelto di combattere con le unghie e con i denti come decise di fare a Entebbe; Peres è l'uomo che chiese all'Onu di espellere l'Iran, che chiamò antisemita Cameron quando disse che Gaza era «un campo di prigionia»; che nel 2009 ha parlato della deprecatissima missione «Piombo fuso» come di un indispensabile momento di autodifesa contro i missili sparati sui civili. Ma dopo i grandi combattenti, Ben Gurion, Moshe Dayan, Peres stesso, Begin e Shamir, la gente che è venuta a piedi dalla Polonia e dalla Russia, che ha fatto fiorire il deserto e mangiato solo banane e poco pane per anni, che dopo il matrimonio come Peres sono andati a vivere in una tenda seguitando a scrivere poesie mentre imparavano a sparare, chi sono gli israeliani d'oggi? La risposta è scritta nella storia, e in quello che ha detto Netanyahu al funerale: abbiamo tanto discusso, ha detto in sostanza, ma alla fine chi aveva ragione fra il mio punto di vista sicurista e il suo, pacifista? Tutti e due, si è risposto Bibi, e alla fine eravamo diventati amici per questo. Se si può dare una risposta sintetica e un po' stupefacente alla nostalgia di tanti, essa è: Netanyahu non è distante da Peres. Sentire nostalgia di un uomo ottimista, divertente, colto e instancabile come Peres è quasi necessario, ma immaginare che la sua specie si sia perduta non funziona per Israele. Peres ha fatto da ragazzo il pastore («e non ho mai perso una pecora») e il postino, ma chiunque in Israele ha figli e nipoti che dopo l'esercito hanno faticato parecchio (come cameriere, autista, donna delle pulizie...) per guadagnare per lezioni, viaggi, affitto. In Israele faticare non è un problema, come non lo è affrontare il pericolo. I giovani di oggi, come quelli di ieri, lo devono fare: lo fanno. Devono combattere: combattono. Devono inventare: dalla irrigazione a gocce sono passati all'hi tech. Certo, è finito il tempo della penuria di cibo, dell'economia dell'esportazione di arance. Il consumismo ha buon giuoco specie nelle cose che tutti i ragazzi amano, telefonini, auto. Ma la disponibilità verso la comunità si verifica nel gran numero di volontari nei servizi civili, di sicurezza, sanitari, oltre che nella richiesta di servire nelle unità combattenti. I ragazzi sono viziati fino al punto che gli è consentito, le canzoni non sono più fatte di patria e di guerra, ma quando c'è da offrire la vita o da vantarsi del Paese, i giovani israeliani sono come Peres.

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