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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Corriere della Sera Rassegna Stampa
30.07.2017 Vittima di Hitler. E poi di Stalin
Corrado Stajano recensisce 'Sotto una stella crudele'

Testata: Corriere della Sera
Data: 30 luglio 2017
Pagina: 35
Autore: Corrado Stajano
Titolo: «Vittima di Hitler. E poi di Stalin»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 30/07/2017, a pag.35, con il titolo " Vittima di Hitler. E poi di Stalin ", la recensione di Corrado Stajano al libro " Sotto una stella crudele" di Heda Margolius Kovály, Adelphi editore.

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  La copertina                        Heda Margolius Kovály                                                   

Un libro importante, dal titolo sbagliato. Non è la 'stella' ad essere crudele, ma l'ideologia laica o religiosa che l'ha sempre perseguitata. Dimenticando il titolo il libro è un ritratto del nazismo e del comunismo indispensabile per capire le tragedie del secolo scorso.

Gli orrori del Novecento. Un libro-diario, memoria ( Sotto una stella crudele. Una vita a Praga — 1941-1968 ) sembra racchiudere la storia di quel secolo buio, piagato dalla guerra, dalla violenza, dalla ferocia degli uomini. L’ha scritto Heda Margolius Kovály, l’ha pubblicato Adelphi in una limpida traduzione di Silvia Pareschi. Una donna, il suo uomo, il loro bambino sono i protagonisti dello scritto che se fosse un romanzo sembrerebbe eccessivo, al di là di ogni immaginazione. Quanto accade a quella famiglia è invece il ritratto veritiero del mondo offeso, la Storia senza sovrastrutture e inganni, dove anche il minuto particolare fa da specchio all’assoluto. Il dolore, la crudeltà, la morta pietà, la giustizia divenuta una chimera, la vendetta, la viltà, l’ubbidienza dei servi, la caduta di ogni umano sentire, la speranza tradita, il dio che più volte fallisce e qualche volta — si può capire che esistano anche gli altri — il coraggio, la solidarietà, l’amore segnano il destino di Heda. Hitler e Stalin sono i carnefici, i burattinai dell’atroce testimonianza scritta con uno stile sobrio che spesso sembra velare la sofferenza, senza mai un urlo anche quando la narrazione fa inorridire. Heda è una ragazza di Praga, di famiglia borghese, ebrea. Ha poco più di vent’anni quando, nel 1941, viene deportata nel ghetto di Lódz, in Polonia, e poi ad Auschwitz. Lavora in una fabbrica di mattoni, scarica esausta e mezzo svenuta enormi carichi di carbone. Capisce subito dove si trova, racconta degli impiccati lasciati per settimane sulle forche, delle SS che sottraggono alle madri i bambini nascosti in grembo e li gettano nelle camere a gas, scrive delle baracche del lager «un tempo adibite a scuderie e ora affollate da un migliaio di ragazze dalla testa rasata, semifolli, che ululavano sotto le frustate come un branco di lupi. Le guardie, pazze di rabbia quanto le prigioniere erano pazze di dolore e paura, correvano su e giù per il corridoio centrale del blocco, menando colpi alla cieca alle ragazze nelle cuccette. E al di sopra di questo frastuono, la signora Steinóva di Praga stava in piedi su una piattaforma, la testa rasata come tutte noi, e cantava l’aria “La luna sui miei capelli d’oro” dalla Rusalka di Dvorák per ordine della Kommandantin, la quale aveva deciso che il suo blocco doveva essere di buonumore». Heda riesce a fuggire dal lager durante una marcia, la marcia della morte, verso Bergen-Belsen, e arriva a Praga. Non è la Praga incantata, una delle meraviglie del mondo, il Ponte Carlo, Malá Strana, la Città Vecchia, il Castello, la Viuzza d’oro, le ombre di Kafka, le bettole, le chiese, i palazzi, i giardini, le cappelle, la biblioteca del monastero di Strahov coi mappamondi e gli antichi codici colorati nella gran sala. È una città livida dove a rompere il silenzio che impaura sono solo gli scarponi delle SS di ronda, dove i portoni degli amici più cari vengono sbattuti in faccia a Heda che cerca un giaciglio, un rifugio. Jenda, il compagno più caro, terrorizzato: «Per l’amor di Dio, cosa ci fai qui?». Franta, un vecchio amico dei suoi genitori: «Se fossi rimasta al campo saresti stata più al sicuro. È vero, ho paura». E Zdena, l’ultima dei suoi coetanei di prima della guerra: «Mi guardò inorridita e impallidì. Alzò il suo bambino davanti a me come una croce contro l’Anticristo e sibilò, vai via! Vedi questo bambino? Fallo per lui, vattene! Ti prego!». Finalmente Heda ce la fa a prender contatto con una formazione partigiana. È il tempo dell’insurrezione. Spuntano i resistenti dell’ultima ora. Lei lavora alla Croce Rossa. Incontra un’ex compagna di scuola, elegante, ben pettinata: «Mi vide dare un bicchiere d’acqua a un soldato tedesco morente e mi disse ‘Se non sapessi che sei stata in un campo di concentramento te la farei pagare”». Heda commenta dolorante: «Quella fu la prima, spaventosa avvisaglia della devastazione, della profonda corrosione causata dalla guerra: aveva diviso le persone come un colpo di coltello, creando una ferita che avrebbe impiegato molto tempo a guarire». È finita, è finita, ma nessuno è sopravvissuto del tutto. Heda racconta di un sopravvissuto dal lager, scalzo e malconcio che bussa alla sua casa e chiede agli abitanti che riteneva amici la sorte dei beni lasciati loro in custodia: «Ti sbagli, non ci avete lasciato niente». Gli offrono una tisana nell’antica tazzina che fu della nonna, vede i suoi tappeti distesi, i suoi quadri alle pareti. «Che importanza ha?», si dice rassegnato, «siamo vivi, no?». Rudolf Margolius, il marito di Heda, ritorna anche lui dal lager, Dachau. È salvo. Nasce la Repubblica democratica ceca, Heda sente in casa discussioni a non finire, a favore della democrazia, a favore del comunismo. Le ragioni democratiche le appaiono giuste, la passione dei comunisti, la speranza in un mondo di uguali l’attraggono. Il marito diventa viceministro al Commercio estero, lei lavora in una casa editrice, si iscrive come Rudolf al partito. Il colpo di Stato comunista rompe ogni illusione, la democrazia è morta. Ora contano solo le origini proletarie, le portinaie, spie di quartiere, sono più importanti dei grandi scienziati. Cominciano le perquisizioni, gli arresti, la Guerra fredda incattivisce ancora di più gli animi. Nel novembre 1951 viene arrestato Rudolf Slánsky, segretario generale del partito. È la fine. Rudolf Margolius non può non avere sospetti, ma continua a credere che i suoi ideali siano solidi e onesti. È la fine anche per lui. Viene arrestato, subisce perquisizioni che durano ore e ore. Heda viene licenziata, gli amici scompaiono, è una donna sola. Per la strada viene guardata con astio, i suoi beni sono confiscati, è in miseria, privata della casa, ammalata. La paura, di nuovo, è padrona di Praga. Sul dossier di Rudolf c’è la lettera S., Slánsky. Il 20 novembre 1952 i giornali danno la notizia sul processo per il complotto antistatale di Rudolf Slánsky, imputazioni: sabotaggio, spionaggio, tradimento. Gli imputati sono 14, si sottolinea che molti degli accusati sono ebrei, come Rudolf Margolius. Il processo è terrificante. Gli imputati, costretti con la tortura e i veleni più sottili a dir menzogne, confessano tutti i delitti che gli vengono contestati. Anche Rudolf Margolius non nega nulla, dice persino di essere stato addestrato a far la spia durante la guerra, a Londra, quando si trovava nel lager di Dachau. Impiccagione, anche per lui. C’è nel libro una pagina emozionante degna di una grande scrittrice: l’ultimo incontro nella prigione. «Mentre ero qui ho letto un bel libro», dice Rudolf. «Si intitola Uomini dalla coscienza pulita ». Il suo testamento. «Poi venne la notte», scrive Heda. «Prima dell’alba mi addormentai per qualche minuto, proprio nel momento in cui, come avrei saputo più tardi, Rudolf moriva senza dire una parola». La primavera di Praga, 1968, è l’ultima illusione. I carri armati sovietici spezzano ogni speranza di libertà e di democrazia. Heda fugge, lascia per sempre la città natale. Addio Praga magica. Un requiem.

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