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Corriere della Sera Rassegna Stampa
24.07.2017 Israele non è solo Haaretz, ma i media internazionali sembra non lo sappiano
Davide Frattini intervista Aluf Benn, direttore di Haaretz

Testata: Corriere della Sera
Data: 24 luglio 2017
Pagina: 5
Autore: Davide Frattini
Titolo: «'Un conflitto religioso: il rischio per Netanyahu'»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 24/07/2017, a pag. 5, con il titolo "Un conflitto religioso: il rischio per Netanyahu" l'intervista di Davide Frattini a Aluf Benn, direttore di Haaretz.

Sui quotidiani italiani e internazionali, quando si tratta di intervistare israeliani, la scelta cade quasi sempre su coloro - intellettuali, politici, giornalisti - che hanno posizioni fortemente critiche del governo. In questo modo l'immagine di Israele viene semplificata, nel migliore dei casi, o falsata, nei casi peggiori, in genere la maggioranza. Non fa eccezione questa intervista di Davide Frattini.

Ecco l'articolo:

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Davide Frattini

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Aluf Benn, direttore di Haaretz

Il palazzo a strisce grigie e bianche sta in una via di periferia verso la tangenziale, tra negozi di bici elettriche e baracchini che smerciano shawarma, la pagnotta riempita con un po’ di tutto, salse a contrasto — zuccherose e piccanti —, quel che conta è il sapore complessivo. Come il giornale che Aluf Benn prova a cucinare ogni giorno: un commento di Gideon Levy (accusato dalla destra di essere un traditore filo-palestinese) al fianco di un editoriale ultranazionalista scritto da Israel Harel, tra i leader dei coloni. Direttore di Haaretz da sei anni, è alla guida di un quotidiano bollato dai detrattori come marginale — ha perso lettori come la sinistra israeliana elettori — ma che è ancora considerato il più autorevole del Paese. Addirittura tornato a far profitti, al punto che Benn può permettersi di non conoscere i numeri economici: «I giornalisti assunti — calcola al volo — sono più o meno 250». Che ogni giorno da Tel Aviv producono pagine quasi sempre in dissenso con chi siede nel palazzo del primo ministro, Golda Meir ripeteva «l’unico governo che Haaretz abbia mai sostenuto era il mandato britannico», la testata esiste dal 1919 ed è di proprietà della stessa famiglia, gli Schocken, dal 1935.

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In un retroscena raccontate le ore che hanno portato alla decisione di installare i metal detector. Secondo la ricostruzione, il premier Benjamin Netanyahu avrebbe ceduto ai rivali politici, che stanno alla sua destra nella coalizione. «I varchi elettronici sono stati posizionati dopo l’uccisione di due poliziotti: gli assalitori hanno sfruttato l’ingresso libero per trasportare le armi, i comandanti non potevano non prendere misure per proteggere gli agenti. Nel governo ci sono però forze — come il partito di Naftali Bennett — che premono per modificare lo status quo, pretendono che gli ebrei possano pregare sul Monte del Tempio. Dal loro punto di vista l’assenza di musulmani dal luogo sacro è già una vittoria: più a lungo i metal detector rimangono, più a lungo i fedeli arabi resteranno fuori».

Netanyahu è un leader laico, perché assecondare queste spinte messianiche? «Non è praticante, non prega, ma capisce le sue necessità politiche e sa di dipendere da Bennett per tenere il governo in vita. La questione della sovranità israeliana è invece altrettanto importante per lui».

Gadi Eisenkot, il capo di Stato Maggiore, avverte che questa ondata di violenza ha tra i palestinesi profonde connotazioni religiose. «C’è sempre il timore che il conflitto diventi più religioso e meno nazionalista, perché si trasforma in una questione che tocca tutti i musulmani dal Bangladesh al Marocco. Ed è più difficile trovare compromessi attorno alle tradizioni, le credenze, la fede».

Abu Mazen ha annunciato di aver interrotto i contatti con gli israeliani, compreso il coordinamento per la sicurezza. Il presidente palestinese è in grado di controllare la situazione? «No. E’ accusato di essere un complice degli israeliani e allora taglia i rapporti. Ma così spinge l’esercito e il governo di Netanyahu in un angolo, perché senza il coordinamento i nostri soldati rischiano di più in Cisgiordania e la decisione produrrà un rafforzamento della presenza militare».

Lei ha definito un «cliché» il paragone tra Nelson Mandela e Marwan Barghouti, il leader palestinese condannato a cinque ergastoli per terrorismo, che molti vedono come il successore ad Abu Mazen. «Il Sudafrica degli anni Ottanta è molto diverso dalla Israele di oggi. Là una minoranza comandava su una vasta maggioranza, il regime stava già collassando. Qui sono i palestinesi a essere in crisi. Per questo motivo Netanyahu avrebbe preferito evitare una crisi attorno alla Spianata: il suo obiettivo è smantellare il nazionalismo palestinese, gli conviene non toccare questioni come la moschea Al Aqsa. Perché offre una bandiera globale a un movimento rimasto senza grandi cause che il mondo voglia ancora ascoltare e seguire: pochi badano agli insediamenti, il problema dei rifugiati palestinesi è stato sorpassato dalla ondata di siriani, libici, afghani che bussano disperati alle porte dell’Occidente».

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