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Corriere della Sera Rassegna Stampa
30.05.2017 Inghilterra: Jeremy Corbyn omaggia i terroristi assassini di ebrei e sale nei sondaggi
Cronaca di Luigi Ippolito

Testata: Corriere della Sera
Data: 30 maggio 2017
Pagina: 13
Autore: Luigi Ippolito
Titolo: «Corbyn il rosso. La rimonta (im)possibile»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 30/05/2017, a pag. 13, con il titolo "Corbyn il rosso. La rimonta (im)possibile" la cronaca di Luigi Ippolito.

Pochi giorni fa il Sunday Times ha rivelato che Jeremy Corbyn, un anno dopo la sua elezione a capo del partito laburista, ha deposto una corona di fiori sulla tomba di uno dei terroristi palestinesi autori della strage degli atleti israeliani di Monaco '72. Nel 2014, inoltre, Corbyn ha partecipato alle commemorazioni, tenutesi in Tunisia, in ricordo dei terroristi morti durante un intervento israeliano contro la centrale operativa dell'Olp nel 1985. Tutto questo non stupisce, perché Corbyn non esita a farsi fotografare con esponenti di Hamas e Hezbollah, che definisce "amici". Il suo partito, in Inghilterra, è su posizioni sempre più estreme e i casi di autentico antisemitismo di suoi leader sono decine. E' Corbyn, il socialista Corbyn, oggi, uno dei grandi pericoli per Israele, per gli ebrei europei e per la democrazia britannica.

Ecco l'articolo:

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Luigi Ippolito

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Jeremy Corbyn durante una manifestazione di odio contro Israele

 

Londra - Ormai al quartier generale del partito conservatore se lo aspettano: il sondaggio choc che dà i laburisti in vantaggio potrebbe arrivare già in settimana. E forse il sorpasso si sarebbe già verificato, se l’attentato di Manchester non avesse congelato per qualche giorno la campagna elettorale. La corsa al voto britannica ha preso una dinamica che nessuno aveva previsto. Quando Theresa May ha convocato le elezioni anticipate per l’8 giugno, il vantaggio del partito di governo su quello d’opposizione era di venti punti percentuali. Anche per questo la premier ha deciso di smentire se stessa e andare alle urne: si è resa conto di avere l’opportunità di conquistare una maggioranza schiacciante e ritrovarsi le mani libere nei negoziati sulla Brexit. Ma poi qualcosa è successo. I laburisti hanno cominciato a macinare consensi, lo scarto si è ridotto fino agli attuali sei-sette punti e qualcuno ha cominciato a pensare l’impensabile: la barbetta di Jeremy Corbyn che si affaccia dal portone di Downing Street.

Una prospettiva per molti irrealistica, per alcuni catastrofica: la sterlina nei giorni scorsi ha perso terreno alla sola ipotesi. L’ultimo ad aspettarselo, probabilmente, è proprio il leader laburista. Lui non ha mai corso per vincere, neanche quando si è candidato alla guida del partito. Ha passato una vita a militare nelle file dell’ultrasinistra, votando quasi sempre contro la stessa linea del suo gruppo parlamentare. E quando nel settembre del 2015 ha messo il suo nome per la prima volta nella lista per la leadership laburista, lo ha fatto pensando a una candidatura di bandiera. Ma è accaduto l’imprevisto: la base del partito, stufa di blairiani e post-blairiani che non vincevano più elezioni nè facevano un’opposizione convincente, si è mobilitata a suo favore e lo ha plebiscitato alla testa del Labour, fra la costernazione dei moderati che occupano la maggioranza dei seggi a Westminster. Il fenomeno Corbyn ricorda l’insurrezione di Bernie Sanders alle primarie democratiche in America, che costò quasi la candidatura a Hillary Clinton. Solo che a Londra i rivoluzionari hanno occupato il quartier generale. Spostando il partito su posizioni socialiste radicali.

Corbyn è apparso nella prima fase come un leader incapace, particolarmente inefficace nei dibattiti parlamentari in qualità di capo dell’opposizione. Sembrava aver condannato i laburisti alla marginalizzazione, movimento estremista di protesta ineleggibile alla guida del Paese. E i sondaggi disastrosi confortavano questa tesi. La performance peggiore è arrivata l’anno scorso in occasione del referendum sulla Brexit, quando Corbyn non ha voluto (o potuto) prendere una posizione chiara: e l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue è probabilmente una sua responsabilità. Ma quando poi i deputati esasperati hanno provato a disarcionarlo in autunno, la base dei militanti lo ha ricondotto trionfalmente alla guida del partito. Perché in realtà è ormai il gruppo parlamentare che sembra scollegato dal Paese reale, o almeno da quella parte che si riconosce nei laburisti. Che non ne può più delle politiche di austerità imposte dai conservatori dopo la crisi finanziaria e reclama una svolta in senso sociale. Per questo il manifesto elettorale di Corbyn, paragonato dai commentatori alla «lunga nota di suicidio» di Michael Foot del 1983, che portò a una disastrosa sconfitta, ha incontrato invece il favore di ampie fette dell’elettorato. Che a differenza della City vuole i servizi essenziali in mano pubblica, più spese per la sanità, misure a favore degli anziani e dei giovani.

Corbyn sarà debole nei corridoi di Westminster, ma è nel suo elemento quando è in campagna elettorale. I suoi comizi sono un successo ed è riuscito a mobilitare in particolare le donne e gli studenti, promettendo tra l’altro l’abolizione delle rette universitarie. Lo ha aiutato anche la figuraccia dei conservatori, che si sono dovuti rimangiare uno dei punti chiave del loro programma, che minacciava gli anziani di dover vendere la casa per pagarsi l’assistenza. E il ritornello di Theresa May sulla «leadership forte e stabile» comincia ormai a suonare come un disco rotto. Resta da vedere quanto la rimonta certificata dai sondaggisti si concretizzerà l’8 giugno nelle urne. Ma certamente i moderati del partito che speravano segretamente in una sonora sconfitta per liberarsi di Corbyn dovranno ricredersi: se il Labour andrà al 35-36 per cento, ossia molto oltre il 30 delle elezioni del 2015, Corbyn non avrà alcuna ragione per dimettersi. E se continuerà la sua volata, l’Inghilterra potrebbe vedere le sue stazzonate giacchette di tweed appese all’attaccapanni del numero 10 di Downing Street.

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