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Corriere della Sera Rassegna Stampa
13.04.2017 Sergio Romano, l'ultimo sostenitore della politica di appeasement di Obama
Un elogio all'inazione europea in Siria

Testata: Corriere della Sera
Data: 13 aprile 2017
Pagina: 28
Autore: Sergio Romano
Titolo: «Ma non bisogna dimenticare che in Siria le guerre sono due»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/04/2017, a pag. 28, con il titolo "Ma non bisogna dimenticare che in Siria le guerre sono due", il commento di Sergio Romano.

L'articolo di Sergio Romano è un elogio dell'inazione europea di fronte al conflitto in Siria. Vero è che i principali contendenti (Assad appoggiato da Russia e Iran da una parte, Stato Islamico dall'altra) sono ugualmente impresentabili e responsabili di crimini di ogni genere, ma l'Occidente ha il dovere di interessarsi a una crisi umanitaria come quella siriana e di cercare di risolverla. Nella direzione prescritta da Romano è andato per anni Barack Obama, con la conseguenza di spostare "linee rosse" precedentemente stabilite, e dunque perdere ogni credibilità in Medio Oriente. Un modello che ha già mostrato il proprio fallimento, eppure c'è ancora qualcuno a crederlo valido. Tra questi Sergio Romano.

Ecco l'articolo:

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Sergio Romano

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Maschera antigas: è provato l'utilizzo di gas nervino da parte del regime di Assad in Siria

Non è escluso che questa linea, come è accaduto in altre circostanze, possa cambiare. Ma l’attacco chimico contro la città di Khan Shaykun e lo sdegno manifestato da Donald Trump nelle ore successive, rendono questa prospettiva, almeno per il momento, improbabile. La Russia continuerà a difenderlo, ma potrebbe essere costretta a sacrificare realisticamente il suo principale alleato nella regione. E il presidente siriano, se fosse costretto a lasciare il potere, andrebbe a raggiungere il folto gruppo dei leader autoritari arabi che hanno perduto il potere fra il 2003 e il 2011: Saddam Hussein in Iraq, Zine El-Abidine Ben Ali in Tunisia, Hosni Mubarak in Egitto, Muammar Gheddafi in Libia. In un caso (la Tunisia), il leader è stato cacciato dal suo popolo; negli altri dall’intervento militare delle democrazie occidentali o dalla «neutralità» con cui l’America di Barack Obama ha assistito alla defenestrazione politica di Mubarak.

Sappiamo che cosa è accaduto. L’Iraq è diventato teatro di una guerra che dura da quattordici anni, ha contagiato l’intera regione e ha lasciato sul terreno un numero incalcolabile di vittime civili. La Tunisia ha dimostrato di avere forti spiriti democratici, ma è continuamente minacciata da gruppi jihadisti lungo le sue frontiere meridionali ed è diventata un vivaio di reclute per le milizie dell’Isis. L’Egitto è stato governato per parecchi mesi dalla Fratellanza Musulmana (una organizzazione che ha rivelato, quando è andata al potere, il suo volto integralista) ed è passato dalla semi-democrazia di Mubarak al regime autoritario e poliziesco del maresciallo Al Sisi. La Libia è stata devastata da una guerra tribale non ancora conclusa ed è oggi il principale capolinea mediterraneo delle migrazioni provenienti dal continente africano. La matassa siriana, in questo quadro, è la più imbrogliata. Di fronte alle proteste popolari Bashar Al Assad ha scelto di restare al potere e di resistere agli insorti. Ha riscosso qualche successo militare perché, a differenza di altri leader, ha potuto contare su alcuni importanti alleati: gli alauiti (una minoranza etnico-religiosa che appartiene alla grande famiglia sciita), i militanti del partito Baath, la borghesia commerciale e industriale di Aleppo, i cristiani e due grandi potenze: la Russia, presente in Siria con due basi militari sin dagli anni in cui si chiamava Unione Sovietica, e l’Iran degli Ayatollah. I suoi nemici sono numerosi, decisi a combattere e spesso sostenuti da importanti simpatie occidentali. Ma sono divisi in formazioni che hanno patroni diversi e perseguono obiettivi incompatibili. Quella che si combatte in Siria, dunque, è una doppia guerra civile.

La prima è politica e sociale mentre la seconda, molto più pericolosa e sanguinosa, schiera in campo, gli uni contro gli altri, sciiti e sunniti, vale a dire le due grandi correnti religiose dell’Islam. Gli effetti di questo doppio conflitto sono caotici. L’Iran e gli Hezbollah sono sciiti e difendono risolutamente i cugini alauiti; mentre i sunniti che combattono contro Assad sono aiutati dai loro correligionari del Golfo anche quando appartengono a formazioni jihadiste e allo stesso Stato Islamico. In questa vicenda le democrazie occidentali sono fra Scilla e Cariddi. Possono fare del loro meglio per cacciare Assad privandolo di qualsiasi riconoscimento internazionale o assestando, come nel caso della rappresaglia americana, qualche duro colpo militare. Ma rischiano in questo modo di favorire una forza di opposizione, l’Isis, che l’esercito sciita iracheno sta cercando di sconfiggere a Mosul con l’aiuto degli Stati Uniti. L’unico modo per uscire da questo imbroglio sarebbe quello di decidere quale sia il nemico peggiore: Assad o l’islamismo fanatico e radicale? La Russia ha scelto senza esitare perché vuole conservare le sue basi, deve fare fronte a un pericoloso islamismo domestico e ha un leader che può imporre la propria linea. Le democrazie occidentali, invece, devono rendere conto delle loro azioni alla pubblica opinione e tenere d’occhio il barometro elettorale. Ma se hanno deciso che la eliminazione di Assad è una condizione irrinunciabile dovrebbero almeno prepararsi a ciò che potrebbe succedere in Siria il giorno dopo. E gli europei, in particolare, dovrebbero ricordare che il Mediterraneo è la loro casa, non quella degli americani.

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