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Corriere della Sera Rassegna Stampa
03.02.2017 Le immotivate 'profezie' contro Donald Trump
Di Bernard-Henri Lévy, Philip Roth

Testata: Corriere della Sera
Data: 03 febbraio 2017
Pagina: 12
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Trump con gli occhi di Philip Roth: un bambinone che fa giochi rischiosi»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/02/2017, a pag. 12, con il titolo "Trump con gli occhi di Philip Roth: un bambinone che fa giochi rischiosi", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

Non è chiaro su che cosa poggi la "profezia" di Philip Roth e BHL, secondo cui la presidenza di Trump durerà "solo un anno". E' possibile essere in disaccordo, anche forte, con le decisioni di Trump, ma perché dovrebbe terminare anzitempo il proprio mandato? La "profezia" sembra più un auspicio di chi scrive che una previsione fondata su dati oggettivi.

Ecco l'articolo:

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Bernard-Henri Lévy

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Donald Trump

Il giorno dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, ho fatto la conoscenza di Philip Roth. È stata davvero un’esperienza singolare trascorrere, assieme al nostro amico comune Adam Gopnik, la fine di quella giornata folle in compagnia dello scrittore il quale, tredici anni or sono, nel suo Il complotto contro l’America , ha descritto con grande esattezza lo scenario da incubo in cui, a quanto pare, sta per entrare il Paese. Nell’appartamento di Manhattan, pieno zeppo di scaffali e di libri, dove abita dal giorno in cui ha annunciato di non aver più intenzione di scrivere, Roth ha trascorso la mattina davanti alla televisione. Anche lui, come tanti americani, ma forse con maggiore sconcerto, ha osservato le immagini di quel vecchio bambino rabbioso che strilla e agita i pugni per insultare le élite di Washington, il popolo americano e il mondo intero. Abbiamo parlato di quell’altro bambino, quello vero, il piccolo Barron Trump, travestito come il principe di una commedia e spostato come un pacco, o un trofeo, da un palco all’altro dove si celebrava il trionfo del Cesare suo padre.

L’autore de Il complotto contro l’America , come sanno i suoi lettori, nutre una tenerezza particolare per le eroine dei suoi romanzi e per questo ci siamo soffermati sul caso di Melania, la nuova First Lady, e su quella sua aria stranamente assente durante tutta la cerimonia: lucida? Rassegnata? Forse consapevole, più di tutti noi, delle catastrofi annunciate? Oppure semplicemente la storia della fanciulla più bella alla festa danzante che un ragazzone ingordo ha invitato a ballare per poi stringerla tra le braccia senza troppi scrupoli?

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Philip Roth

Roth ha parlato inoltre delle forze capaci di resistere a questa marea nera di volgarità e di violenza, proprio come nel suo romanzo o meglio, nel nuovo romanzo che sta abbozzando in questo momento lo spirito del mondo e nel quale lui, fine conoscitore, riesce a individuare diverse trame, al contempo strampalate e tragiche: 1) il popolo democratico, che vuole ricordare, scendendo in massa nelle strade di tutte le grandi città del Paese, che è stato lui, per numero di voti, ad aver vinto le elezioni; 2) il popolo repubblicano, che sa bene che tra i suoi elettori e Trump, tra l’ex democratico trasformatosi in populista e il Grand Old Party, di cui si è servito come di un trampolino di lancio, è ingaggiata ormai una lotta mortale; 3) la CIA, nella cui sede Trump si reca, il giorno successivo, senza una sola parola per i 117 agenti morti in missione, abbandonandosi a manifestazioni di autocompiacimento puerile e vantandosi del numero dei suoi sostenitori accorsi a festeggiarlo a Washington; 4) i funzionari dell’Fbi, che non gli perdoneranno di aver così frettolosamente dubitato della loro lealtà e integrità per i casi di pirateria informatica durante la campagna elettorale a opera dei servizi segreti russi. Ma non è strano, dico io, che la più grande democrazia al mondo debba contare su meccanismi istituzionali di «controlli e contrappesi» talmente insulsi e inefficaci? Quello che è strano, risponde Roth con una delle sue fragorose risate, la testa rovesciata all’indietro, con le quali punteggia la conversazione, è piuttosto lo stato di insurrezione sospesa la cui responsabilità ricade su questo presidente eletto controvoglia, per il quale prevede un mandato ancor più breve (un anno al massimo) rispetto al protagonista del suo romanzo.

Le due situazioni, lo sa benissimo, non sono esattamente paragonabili. Il romanzo si svolge nel 1940. È Charles Lindbergh, il celebre aviatore dalle simpatie pro naziste, ad aver sconfitto sul filo di lana il favorito dell’epoca, F.D. Roosevelt. E Lindbergh, si sa, era un antisemita dichiarato. Ma allo stesso tempo… Questa retorica mussoliniana… L’alleanza offerta a Farage e Orban, a Le Pen e a Putin, vale a dire a tutti i peggiori leader populisti o fascistoidi sull’altra sponda dell’Atlantico. E poi il suo slogan, «America first»: ci si stupisce che qui, negli Stati Uniti, una tale dichiarazione non abbia suscitato orrore nel cuore di tutti coloro che abbiano un minimo di cultura politica e di buon senso, qualunque siano le loro appartenenze… Perché era proprio quello lo slogan ufficiale dei nazisti americani all’epoca di Charles Lindbergh, nel 1940. Era quello lo slogan agitato da quanti, in America, si opponevano alla guerra contro la Germania hitleriana. Era in suo nome che venivano denunciati invece gli ebrei considerati «guerrafondai», accusati di voler anteporre i propri interessi a quelli del Paese. Ed è questo slogan, ripetuto oggi fin sui gradini del Campidoglio che ha spinto David Duke, antico leader del Ku Klux Klan, a urlare un trionfante: «Ce l’abbiamo fatta!». Donald Trump ne è perfettamente al corrente. E risponde, quando gli vengono ricordati questi fatti, che egli guarda «al futuro», e non «al passato». Ebbene, il mondo dell’azione si divide tra nichilisti senza memoria e quanti sanno che le lingue hanno una storia, e quindi un subconscio.

La partita si giocherà tra coloro che credono sia possibile, senza pensare alle conseguenze, ripetere quindici volte in un discorso lo slogan dei suprematisti bianchi, e coloro che sanno che le parole hanno una precisa genealogia, pronta a vendicarsi ogni qualvolta essa viene negata o dimenticata. Per non parlare poi di un’ironia particolarmente sinistra, quando si scopre che il presidente più impopolare d’America, contestato in questi giorni nella prima dimostrazione globale della storia, l’alleato dei demagoghi più impresentabili e, spesso, i più criticati della nostra epoca, quest’uomo ha stretto amicizia, a Gerusalemme, con quegli stessi individui che il suo predecessore, nella finzione narrativa, trattava come appartenenti a una sottospecie umana. Mi auguro soltanto che i beneficiari delle sue repentine premure sapranno ben guardarsi da tale amico, come si guardano dai loro nemici. Mi auguro che non dimentichino mai che il destino di Israele è una cosa troppo seria per abbandonarlo ai pretesti di un avventuriero ignorante e impulsivo, che vuol farne una dimostrazione di autorità o del suo presunto talento nel condurre trattative. Altrimenti gli ebrei in Israele, negli Stati Uniti e nel mondo intero non avranno altra scelta, come nel romanzo di Philip Roth, che accettare la sorte ugualmente funesta di Winchell, la vittima, o di Bengelsdorf, l’ostaggio consenziente. L’America non ha letto Philip Roth con l’attenzione dovuta. Il mondo di Roth o quello di Trump, a noi la scelta.
(Traduzione di Rita Baldassare)

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