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Corriere della Sera Rassegna Stampa
18.07.2016 Dopo Nizza, l'Europa alla prova: gli errori da evitare
Editoriale di Angelo Panebianco, analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: Corriere della Sera
Data: 18 luglio 2016
Pagina: 1
Autore: Angelo Panebianco - Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Sicurezza comune, l'Europa alla prova - I cinque errori da evitare dopo l'attacco»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 18/07/2016, a pag. 1-30, con il titolo "Sicurezza comune, l'Europa alla prova", l'editoriale di Angelo Panebianco; a pag. 17, con il titolo "I cinque errori da evitare dopo l'attacco", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

Ecco gli articoli:

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L'Europa è sotto attacco

Angelo Panebianco: "Sicurezza comune, l'Europa alla prova"

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Angelo Panebianco

Prima della disgregazione di Siria, Iraq e Libia, prima dello Stato Islamico, prima che i «crociati» europei finissero nel mirino del terrorismo jihadista, prima che cominciasse la mattanza (ma anche prima — va ricordato — che una grande potenza, la Russia, mangiandosi la Crimea, dichiarasse morto il principio, fondamento della pace in Europa, dell’inviolabilità dei confini statali), insomma ancora pochi anni fa, soltanto qualche raro cultore di storia e di politica internazionale poteva immaginare come sarebbe andata a finire: le sorti dell’Unione non si sarebbero decise sul governo della moneta, l’Unione bancaria, le politiche fiscali, ma sulle questioni della vita e della morte, sulla capacità o meno dell’Europa di dare una efficace risposta collettiva sulla sicurezza.

Primum vivere, deinde philosophari . Se non si sopravvive, il resto non ha importanza. Sfortunatamente, finita la lunga pace, storicamente anomala, che abbiamo conosciuto dopo il 1945, siamo tornati alla «normalità». E la normalità consiste nel fatto che è sulla sicurezza (e solo sulla sicurezza), sulla capacità o meno di contrastare la violenza, che si decidono le sorti delle aggregazioni politiche, già esistenti o in cantiere. È sempre stato così. Solo un abbaglio collettivo ha fatto credere, per lungo tempo, che, nel caso dell’Europa, le cose sarebbero andate diversamente, che sarebbe bastata l’integrazione economica per generare l’unità politica.

Poiché i vecchi riflessi sono duri a morire, ancora pochi giorni fa (prima della carneficina di Nizza) si discuteva di Brexit in termini quasi esclusivamente economici. Ma le conseguenze di Brexit sono gravi, prima di tutto, sul piano geopolitico: l’Unione perde la sua principale potenza militare, si allarga il fossato con gli Stati Uniti, si rafforza la capacità di condizionamento degli Stati europei da parte della Russia. Nello stesso momento in cui, direttamente coordinati, o comunque sempre ispirati, dall’estremismo mediorientale, jihadisti europei prendono le armi contro gli altri europei. Basta guardare in faccia Juncker e gli altri responsabili delle istituzioni europee (Merkel è ancora, da questo punto di vista, un enigma) per capire che non sono questi i Churchill che servirebbero ora all’Europa.

D’altra parte, sarebbe anche ingiusto pretenderlo. Vengono da un passato confortevole e pacifico. Sono stati politicamente allevati in un’altra stagione. Non appartengono al futuro. E sono inadatti al presente. Qualche azzeccargarbugli potrebbe dire che, a norma dei trattati, le istituzioni europee possono fare poco. Ma nelle situazioni di emergenza i trattati vanno forzati. Sono le norme che devono essere adattate alla vita e non il contrario. Il problema , nella sua drammaticità, è semplice: o l’Unione riesce a dimostrare agli europei che è in grado di agire collettivamente per innalzare i livelli di sicurezza oppure i topi scapperanno dalla barca che affonda; i cittadini cercheranno (illudendosi) nei vecchi Stati una risposta ai problemi della sicurezza, ascolteranno le sirene degli antieuropeisti che dicono che la salvezza consiste nel rinserrarsi dentro i confini nazionali.

O l’Unione riuscirà rapidamente a trasformare la sicurezza in un «bene pubblico» (in quanto tale indivisibile) oppure chiuderà i battenti. Che la sicurezza non sia, in Europa, un bene pubblico indivisibile, tale per cui le minacce a un membro dell’Unione siano avvertite da tutti gli altri come una minaccia all’Unione nel suo insieme, è provato da tante cose: ad esempio, dalla insofferenza con cui gli europei-occidentali trattano la paura, storicamente giustificata, che ispira la Russia agli europei dell’Est (la collaborazione con la Russia è necessaria ma senza ignorare quelle legittime paure). È provata, ancora, dall’ostilità di quegli stessi Paesi dell’Est (e non solo) per la ricerca di soluzioni condivise sull’immigrazione. O dalle opposte posizioni odierne di Francia e Italia sulla questione libica. O anche dalla solidarietà solo di facciata di molti europei per una Francia aggredita molto più di altri (fino a ora) dal terrorismo islamico. Il problema della sicurezza europea ha due facce.

La prima riguarda il modo in cui evolverà la situazione là dove l’infezione è nata, il Grande Medio Oriente, il mondo islamico (dove il terremoto turco ha appena reso ancora più confusi e imprevedibili i giochi). Ma su questo c’è poco che gli europei possano fare almeno finché non saranno chiare le scelte della prossima amministrazione americana: siamo appesi alle decisioni che prenderanno a breve gli elettori statunitensi. Ma c’è una seconda faccia della questione sicurezza su cui l’Europa può prendere decisioni autonome. C’è da costituire un corpo europeo di polizia di frontiera. C’è da varare norme comuni per «ritirare dal mercato» trattandoli come criminali di guerra, i combattenti jihadisti di ritorno in Europa (anche i nostri Stati liberali hanno il diritto/dovere di proteggersi).

C’è poi il problema di regolare, con decisioni collettive europee, il rapporto fra l’Europa e le comunità musulmane. La loro solidarietà, dopo ogni attentato, non serve. Dobbiamo imporre loro , come Unione, una quotidiana azione pedagogica contro il jihadismo e la denuncia di coloro che appaiano in odore di radicalizzazione jihadista. Di sicuro, ne conoscono parecchi. Certo, c’è poi la questione del fondamentalismo, l’ambiente culturale che genera i mostri. Ma qui le norme servono a poco. Servirebbe di più legittimare e aiutare le minoranze musulmane liberali in conflitto con il fondamentalismo, anziché raccontarsi la bugia secondo cui anche i fondamentalisti, purché non prendano le armi, sarebbero dei «moderati». L’Unione e il suo Stato-guida, la Germania, potrebbero ancora una volta scegliere l’inerzia. Fino alla prossima strage e oltre. Dando agli europei altre dimostrazioni di inutilità. Non è necessario, per contro, gettare il cuore oltre l’ostacolo, immaginare un impossibile «Stato federale». Basterebbe una confederazione flessibile, rispettosa delle autonomie nazionali, ma che sapesse trasformare, almeno in parte, la sicurezza europea in un bene indivisibile.

Bernard-Henri Lévy: "I cinque errori da evitare dopo l'attacco"

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Bernard-Henri Lévy

Porsi il falso dilemma «psicopatico o terrorista»
Psicopatico o terrorista? Come se si dovesse scegliere. Come se i terroristi non fossero tutti, sempre, degli psicopatici. Come se i macellai nazisti degli anni 20 e 30, le squadre dei reparti d’assalto hitleriani che davano la caccia a democratici ed ebrei, come se le brutali SS preposte all’educazione ideologica delle masse tedesche non fossero mai state altro che crudeli psicopatici, più o meno gallonati. Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’autore della strage che ha falciato, al momento in cui scrivo, 84 vite, era un terrorista ed era uno psicopatico. Era instabile, disturbato mentalmente, ed era membro dell’esercito del crimine che ha esteso l’appello del Daesh (sinonimo spregiativo di Isis, ndt ) di «utilizzare» (sono i termini esatti della sua rivista di propaganda) un camion «come un tagliaerba » e di andare «nei luoghi più affollati» «alla massima velocità, pur mantenendo il controllo del veicolo» per «massimizzare la carneficina», e di «prevedere delle armi da fuoco» per finire i superstiti, una volta che «il camion è bloccato». Nessuna contraddizione. Il doppio volto delle barbarie.

Il lupo non è solitario ma di massa e «uberizzato»
La questione del lupo solitario. Quel ripetere continuamente, fino alla nausea, come per rassicurarsi, che, «allo stato attuale delle nostre informazioni» quell’uomo era solo, sconosciuto al battaglione dei soggetti «schedati con la lettera S» (potenziali terroristi, ndt ), senza legami evidenti con il Daesh. Come se il punto fosse questo. Come se il Daesh non fosse, appunto, il contrario di un’organizzazione a cui si sarebbe, più o meno evidentemente, affiliati. E come se la peculiarità del suo modo di funzionare non fosse proprio il fatto di non avere bisogno, per operare, di comitati centrali che distribuiscono ordini, responsabilità, obiettivi. Il Daesh è il califfato più Twitter. È l ’uberizzazione (neologismo francese per lavoro temporaneo simboleggiato dall’azienda Uber, ndt ) di un terrorismo prossimale e di massa. È l’influenza senza contatto, attraverso il contagio e la suggestione fulminea. Stadio supremo del nichilismo, forse arrivato al capolinea della sua folle corsa. Si può essere soldati del nuovo esercito senza essere mai stati reclutati, né addestrati, né avvicinati.

Le rivendicazioni non contano Inutile attenderle con ansia
La rivendicazione. Con quanta ansia è stata attesa, questa famosa, presunta rivendicazione, fino a quando è pervenuta per firmare il crimine! E con quale eccitazione è stata accolta! E poi si sono sprecati i dibattiti bizantini sulla sua formulazione, la sua tempistica e il fatto che il comitato invisibile abbia avuto bisogno, questa volta, di 30 ore e non più 24! La verità è che tutto ciò, ripeto, non ha alcuna importanza. Non ne aveva già dai tempi delle Brigate rosse a cui capitava di non rivendicare le loro stragi o di rivendicare, al contrario, quando conveniva loro, quelle perpetrate dalle organizzazioni rivali. A maggior ragione il Daesh. A maggior ragione questa nebulosa di gangster senza codice né onore che non hanno alcuna ragione di essere ragionevolmente collocati nei casi previsti dai nostri esperti. A volte, l’effetto del terrore avvalora tali rivendicazioni (anche quando sono assolutamente infondate). A volte il terrore è maggiore quando lascia i superstiti nella perplessità e nel dubbio (e c’è da ridere, a Mosul, per l’ingenuità dei nostri daeshologhi nel fare l’esegesi di comunicati raffazzonati). L’islamismo è opportunismo. Sotto l’ombrello del radicalismo, il bricolage di una retorica senza fede né legge.

Beveva birra e niente moschea Era così, perché stupirsi?
Cosa? Un islamico che non frequentava la moschea? Che non faceva il Ramadan? Che ballava la salsa? Che beveva la birra? Proprio così. Perché l’islamismo, in effetti, non è una religione ma una politica. Più precisamente, una versione dell’Islam, che è innanzitutto una variante di quella forma generica di politica chiamata, da un secolo, fascismo. Quindi, se quel legame è sempre vivido, essenziale e costitutivo, se il jihadismo è, dalle sue origini, ovvero dai Fratelli musulmani, una forma specifica ed esplicita di nazismo, tale legame, quello con la fede, può essere tranquillamente più allentato e porsi come rinforzo — e di fatto lo è, nella misura in cui ci si allontana dal nucleo teologico politico per entrare nella vasta periferia nebulosa in cui si attivano gli ultimi barbarorum —. Mohamed Lahouaiej Bouhlel ne era la prova. Era l’immagine di un Daesh che sta per conoscere, speriamo, il limite della sua estensione, smarrendo, come è giusto che sia, la distinzione delle sue parole d’ordine.

Se la Francia è nel mirino non c’è nessun perché
Infine, perché Nizza? Perché la Francia? E che «sbaglio» abbiamo fatto per ritrovarci, ancora una volta, sotto tiro? Altra falsa domanda. Lo stesso tipo di falsa domanda. Con delle risposte assurde, come sempre quando si parte da una domanda sbagliata (il mito delle «rappresaglie» presumibilmente volte a punire l’intervento militare in Siria, successivamente, e non precedentemente, agli attacchi contro Charlie Hebdo e l’Hyper Cacher) e il dibattito che sa di sottomissione (dimentichiamoci le nostre leggi sul velo, smussiamo la nostra laicità, cerchiamo un compromesso...). Il jihadismo colpisce ovunque, è questa la verità. Ha solo l’imbarazzo della scelta degli obiettivi, e li sceglie, anche in questo caso, secondo una logica di pura opportunità. Un giorno Orlando; un altro la Tunisia o il Bangladesh; un altro ancora, se lo ritiene opportuno, Bruxelles, Istanbul o, appunto, Nizza. A tale dispersione di bersagli colpiti alla cieca non bisogna attribuire più senso di quanto ne abbia. Soprattutto, non bisogna fare al Jihad il regalo di una — non so quale — mente, che programma le offensive come se giocasse a scacchi . La forza di questa gente sono le nostre debolezze. E questa tentazione di sovra-interpretare, di vedere dappertutto dei segni sottili, di attribuire a queste anime aride una dignità logica che non hanno è, appunto, un’altra nostra debolezza.

(Traduzione di Ettore C. Iannelli)

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