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Corriere della Sera Rassegna Stampa
22.06.2016 Libia: reportage da una nazione che non esiste più
di Lorenzo Cremonesi

Testata: Corriere della Sera
Data: 22 giugno 2016
Pagina: 19
Autore: Lorenzo Cremonesi
Titolo: «La giornata di un miliziano»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 22/06/2016, a pag.19, con il titolo "La giornata di un miliziano", il reportage di Lorenzo Cremonesi.

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Lorenzo Cremonesi       Sirte, immagine di una guerra civile nel nome dell'islam

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SIRTE- Operatore informatico oppure soldato a tempo pieno? Fosse stato per lui, avrebbe scelto senza dubbio la prima carriera. Ma in Libia lo spettro della guerra prevale ovunque. Così due anni fa, al suo diciannovesimo compleanno e fresco di diploma dell’Istituto tecnico di Misurata, Abdelhakim Mashri ha optato per seguire i due fratelli poco più grandi di lui, Abdallah e Abdelkarim, che indossano l’uniforme. «Il nostro Paese è a un bivio. Per la prima volta dalla caduta di Gheddafi possiamo sperare di ritrovare l’unità nazionale. Ma occorre combattere. Altrimenti vinceranno gli estremisti radicali, i gaddafiani, i jihadisti di Isis arrivati dall’estero e tutte quelle forze che vogliono dividere la Libia», spiega. Proprio ieri, una cinquantina di commilitoni di Abdelhakim hanno perso la vita negli scontri. Il nostro incontro avviene in due fasi. La prima è sulla linea del fronte di Sirte presso l’Ouagadougou Conference Center, il gigantesco centro congressi che Gheddafi volle erigere nella sua regione natale quale luogo di incontro e dialogo con i Paesi africani alleati alla sua Jamariah. Abdelkarim è steso su di un materasso di gommapiuma, a fianco qualche lenzuolo impolverato, coperte sporche, pile di bottiglie d’acqua minerale vuote, resti degli ultimi bivacchi coperti di mosche. L’unica ombra contro i 42 gradi al sole è offerta da sparsi carrubi e alcuni teli utilizzati come tende appesi ai rami. Al suo fianco i compagni stanno armeggiando con la mitragliatrice da 25 millimetri montata sul cassone dei soliti pick-up Toyota, che furono il simbolo della rivoluzione nel 2011. «Non è cambiato molto rispetto ad allora. Sono più o meno le stesse armi, gli stessi slogan, le stesse tattiche. Anche Sirte è la stessa. Oggi però i civili coinvolti nei combattimenti sono pochissimi. Abbiamo catturato due giovani donne giordane che agivano come spie. Quelli intrappolati nell’assedio sono irriducibili pro-Gheddafi e famiglie legate ai volontari di Isis. Più che altro ci si batte tra formazioni militari chiaramente distinguibili», spiega. Lui allora veniva nelle retrovie per portare cibo ai due fratelli miliziani. «Cinque anni fa ero troppo giovane per combattere. A Misurata, durante l’assedio delle milizie fedeli a Gheddafi assieme ai mercenari africani, mi occupavo di assistere i civili: sono stato barelliere, infermiere, ho scavato tra le macerie per recuperare morti e feriti, ho aiutato nelle cucine». Adesso ha un kalashnikov in mano e una struttura militare alle spalle, che a suo dire è sempre più solida. «Da pochi mesi la nostra milizia di Misurata è stata inquadrata nel nuovo esercito nazionale che fa capo al governo unitario del premier Fayez Sarraj a Tripoli. È un passo importante, miriamo ad inglobare tutte le formazioni armate che operano nel nostro Paese», dice convinto. Dai palazzoni massicci dello Ouagadougou Center a circa 800 metri da noi giunge una serie di colpi isolati. «Sono i cecchini. Si muovono con facilità, sanno di essere ben protetti nei loro nascondigli in cemento armato. Se noi avessimo artiglierie pesanti potremmo snidarli facilmente. Ma disponiamo solo di qualche vecchio cannone sovietico da 150 millimetri», spiega. Il caldo è opprimente, gli uomini sonnecchiano sui materassi. «I ritmi del Ramadan rendono tutti più sonnolenti. Durante il giorno non mangiamo e neppure beviamo. La notte invece è il momento più difficile. Isis compie incursioni approfittando del buio, specie tra le due e le sei del mattino. Il risultato è che dormiamo pochissimo, tre o quattro ore al massimo», racconta. Poche ore dopo la sua unità riceve l’ordine di andare a rinforzare i posti di blocco nelle retrovie. Almeno tre attentati kamikaze negli ultimi giorni costringono a prendere contromisure. Abdelkarim e la sua squadra vengono spostati all’incrocio di Abu Grein, 120 chilometri più indietro, a soli 100 chilometri da Misurata. Qui l’altro giorno un kamikaze di origine tunisina si è fatto esplodere nella sua auto uccidendo almeno dieci combattenti di Misurata e ferendone altri otto. «Isis trova sostegno tra le vecchie tribù pro-Gheddafi. È gente che ci odia, ma cerca vendetta anche contro tutti quei Paesi membri della Nato che causarono la caduta del regime. Qui attorno si trova tra l’altro Bani Walid, i cui abitanti aiutano in ogni modo i pro-Gheddafi di Sirte. Se riuscissero a controllare la zona di Abu Grein metterebbero a rischio le nostre vie di rifornimento per quelli che combattono nella zona dell’assedio», continua. Ma anche tra le file di chi combatte il Califfato il caos è grande: sempre ieri, non lontano da Abu Grein, ci sono stati scontri tra le milizie rivali di Garabulli e quelle di Misurata, con 30 morti quasi tutti appartenenti al primo gruppo. Il suo nuovo ordine è presidiare la vecchia stazione di polizia devastata dalla potenza dell’esplosione. È ormai sera, un venticello che soffia dal Sahara abbassa il termometro sui 27 gradi. Abdelhakim è stato acquartierato in un largo locale che prima fungeva da archivio e cella. Sarebbe anche confortevole, se non fosse per i vetri infranti e i calcinacci polverosi causati dall’esplosione suicida. Porte sfondate, finestre strappate via dall’onda d’urto, neppure un vetro è intatto. Parla ancora mentre si prepara al lungo turno di guardia notturno: «Abbiamo un nemico infido e determinato. Gli europei dovrebbero sempre ricordare che noi combattiamo anche per voi. La nostra guerra contro Isis e i suoi alleati è anche la vostra. Guai se i filo-Gheddafi dovessero tornare al governo in Libia. Cercherebbero unicamente vendetta. Due giorni fa ho visto un militante di Isis ferito, credo fosse un tunisino. Lo avevamo colpito in più parti del corpo, sanguinava, ma continuava a nascondersi e sparare. Quando ha terminato i colpi ha iniziato a tirare pietre contro i nostri che si avvicinavano. Infine si è fatto saltare per aria». I suoi compagni lo incitavano da dietro un muro. «Taglieremo la testa a tutti», gridavano. E noi rispondevamo: «Prima dovete venir e qui a prenderci, figli di cani!».

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