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Corriere della Sera Rassegna Stampa
26.05.2016 Milano: sei anni ai terroristi islamici, progettavano attentati in Italia
Cronaca di Luigi Ferrarella

Testata: Corriere della Sera
Data: 26 maggio 2016
Pagina: 20
Autore: Luigi Ferrarella
Titolo: «Terrorismo, sei anni agli aspiranti jihadisti»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 26/05/2016, a pag. 20, con il titolo "Terrorismo, sei anni agli aspiranti jihadisti", la cronaca di Luigi Ferrarella.

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Luigi Ferrarella

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Corano e armi: il terrorista islamico è servito

Semplificata all’osso, la questione è: assodato che lo Stato Islamico autoproclamatosi fra Siria-Iraq-Libia è associazione con finalità di terrorismo internazionale, per il diritto italiano può esistere (e dunque essere condannato per 270 bis e non solo per istigazione a delinquere) un partecipe all’associazione senza però che essa sappia di avere un aderente alle proprie finalità terroristiche? Ieri, per la prima volta non in un rito alternativo con giudice monocratico (come il 23 febbraio nel caso della sorella della foreign fighter italiana «Fatima» Sergio) ma in un giudizio ordinario, la Corte d’Assise di Milano — presidente Ilio Mannucci Pacini, a latere Ilaria Simi de Burgis — ha risposto sì: e ha condannato a 6 anni il 36enne tunisino Lassaad Briki (addetto alle pulizie) e il 28enne pakistano Muhammad Waqas (autista di una ditta), arrestati 11 mesi fa a Manerbio (Brescia). Digos e Polizia postale ne avevano colto non concrete attivazioni di progetti d’attentato, ma parole infuocate su possibili obiettivi come la base Nato di Ghedi o almeno i carabinieri di guardia («Entrare in una base militare in un Paese di miscredenti… anche fuori anche dentro… basta ammazzare!»); navigazioni in Internet sulla fabbricazione di bombe a mano; lo studio di un opuscolo dell’esercito del Kuwait su come riconoscere un kamikaze; il post di un giuramento di fedeltà al Califfato, lo stesso dei «mujahedin» nella città natale tunisina di Briki; un manuale, scaricato dalla Rete, di regole per «mujahedin» tra i miscredenti; e la mania per navigazioni anonime.

Pur argomentando che in teoria non sia necessario che la partecipazione all’associazione terroristica venga per così dire notificata all’organizzazione, in quanto basterebbe che le condotte fossero tenute nel suo interesse, nel caso concreto il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e il pm Enrico Pavone hanno invece valorizzato una chat con un altro tunisino per sostenere che Briki fosse già riconosciuto dall’organizzazione e preso in carico quale potenziale foreign fighter. È la chat del giugno 2015 (Briki era in Tunisia) intercettata con un captatore informatico poi fuori uso per l’attacco subìto dalla società produttrice Hacking Team. Quel perduto flusso telematico fu però recuperato nel tablet di Briki: e la chat del 28 giugno mostra, per i pm, che l’interlocutore di Briki era un «facilitatore» del Califfato e gli aveva procurato il contatto per raggiungere lo Stato Islamico.

«Discorsi sì esecrabili, ma solo discorsi», hanno replicato i difensori Luca Crotti e Vittorio Platì: anche perché ad esempio l’amico pakistano, al quale Waqas (come confidò a Briki) avrebbe proposto di raggiungere lo Stato Islamico, non ci è mai andato e anzi pare tornato in Pakistan. «Non c’era alcuna struttura pronta a compiere attentati, ma una forma di esaltazione individuale», è la linea difensiva analoga a quella di Simone Bergamini e Stefano Zucchiatti, difensori — sempre ieri ma a Trento davanti al giudice Marco La Ganga — di tre curdi e un kosovaro: incriminati dai pm trentini Pasquale Profiti e Davide Ognibene, e condannati a 6 anni (Abdul Rahman Nauroz) e a 4 anni (Eldin Hodza, Abdula Salih Ali Alisa e Hasan Saman Jalal) quali partecipi a Merano dell’organizzazione jihadista del mullah Krekar in Norvegia.

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