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Corriere della Sera Rassegna Stampa
19.08.2015 Usa: al Congresso il voto è in bilico
Cronaca e commento di Massimo Gaggi

Testata: Corriere della Sera
Data: 19 agosto 2015
Pagina: 16
Autore: Massimo Gaggi
Titolo: «Patto con l'Iran. I fronti opposti»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/08/2015, a pag.16, con il titolo "Patto con l'Iran. I fronti opposti", la corrispondenza di Massimo Gaggi, che mette in evidenza i due blocchi pro e contro l'Accordo di Teheran. Non ci stupisce l'appoggio degli ebrei americani di JStreet, non fanno altro che ripetere il comportamento che venne tenuto durante la Shoah da altri ebrei americani, attenti a quel che succedeva davanti ai loro occhi sul suolo americano, ma totalmente ciechi di fronte a ciò che avveniva lontano dagli Usa. Per fortuna il campo democratico è diviso e l'azione della lobby AIPAC è forte.

Ecco l'artcolo:

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Massimo Gaggi

«Grazie Schumer per essere un leader con dei principii». Il messaggio e il faccione luminoso dell'influente senatore democratico lampeggerà nei prossimi giorni in un tabellone digitale di nove metri per sei in mezzo a Times Square: una delle pubblicità più appariscenti nel «crocevia del mondo». Uno spazio pagato caro dal comitato che ha promosso l'iniziativa, «United Against Nuclear Iran». Ma è solo una goccia nel mare dei 40 milioni di dollari che vengono spesi in queste settimane dall'Aipac, la «superlobby» degli ebrei americani, nel tentativo di bloccare l'accordo con Teheran siglato dal governo degli Stati Uniti e di altre potenze (Cina, Russia, Paesi europei) che dovrebbe tenere gli «ayatollah» lontani dall'arma atomica almeno per un'altra decina d'anni.
È impressionante la potenza di fuoco politica e finanziaria messa in campo dal fronte contrario all'intesa, sospinto dalla pressione fortissima di Israele e soprattutto del suo premier, Benjamin Netanyahu. Il primo a saperlo è proprio Schumer, senatore ebreo eletto a New York: città con una vasta comunità ebraica, ma anche capitale di quell'elettorato democratico «liberal» che sostiene l'accordo: un'intesa sicuramente imperfetta, ma anche l'unica raggiunta dopo anni di negoziati. Preso fra due fuochi, Schumer, prossimo leader democratico in Congresso col ritiro  di Harry Reid alla fine dei 2016, ha riflettuto prima di pronunciare un «no» all'accordo che sconfessa il suo presidente. Un'esitazione che gli è costata cara: oggi arrivano congratulazioni luminose, ma nei giorni in cui ragionava sul da farsi, Schumer si era ritrovato assediato nel suo ufficio da 60 emissari dell'Aipac. E a una manifestazione di piazza contro l'accordo, Monica Crowley, una conduttrice radiofonica, non aveva risparmiato colpi bassi: «Senatore Schumer, perché tace? Lo sappiamo che camminerebbe sul corpo di sua nonna pur di diventare leader dei democratici al Congresso». Di battaglie delle «lobby» Washington ne ha viste tante, ma questa sull'Iran è di un'intensità e di una qualità senza precedenti anche per l'intervento di un Paese straniero molto influente negli Usa, Israele: un intervento a «gamba tesa» giustificato dal timore di Netanyahu che un'intesa troppo debole rappresenti, in realtà, una minaccia mortale alla sicurezza dello Stato ebraico. La lobby anti accordo, che può contare su tutti i parlamentari repubblicani e anche su una pattuglia di democratici, soprattutto ebrei, non solo è potentissima sul piano politico e finanziario, ma è talmente rude nella sua strategia di persuasione, da aver spinto lo stesso Obama ad alzare la voce. Il presidente ha accusato gli avversari dell'intesa di diffondere falsità (sui contenuti dell'accordo e sulla possibilità di annullarlo ripristinando le sanzioni, cosa che gli altri Paesi firmatari non accetterebbero mai) e ha invitato i sostenitori del patto alla mobilitazione. La «controlobby» che si è messa in moto non è irrilevante: ne fanno parte gli ebrei «liberal» di J Street, convinti che l'intesa sia davvero nell'interesse di Israele, la sinistra movimentista di Move.org e una lobby nuova di zecca: quella degli imprenditori della Silicon Valley di origini iraniane. Nei giorni scorsi il «New York Times» ha pubblicato la lettera aperta a favore dell'accordo scritta da 24 di loro tra i quali il cofondatore di Dropbox, Arash Ferdowsi, l'ex Ceo di YouTube, Salar Kamangar, Omid Kordestani, il «chief business officer» di Google e i fratelli Hadi e Ali Partovi, tra i maggiori investitori in Facebook. Un mondo tecnologico importante, ma un peso piuma politico rispetto all'Aipac (la sigla sta per American Israel Public Affairs Committee), abituata da sempre a dettare legge a Washington, anche in campo democratico: un'organizzazione di grande rilevanza in un Paese nel quale l'influenza della comunità ebraica va molto oltre il suo peso demografico. A finanziarla ci sono molti miliardari ebrei come Sheldon Adelson (mentre Michael Bloomberg ha criticato l'accordo e l'atteggiamento di Obama ma non sembra un motore della campagna) ed ebrei sono tantissimi accademici, medici, scienziati, avvocati e imprenditori, oltre che finanzieri. E, infatti, l'unico organismo che può contrastare con qualche efficacia l'Aipac è un'altra centrale ebraica: J Street, che pesa molto meno (nella campagna sul nucleare sta investendo 5 milioni) ma conta sul fatto che, a differenza del governo israeliano, stavolta la comunita ebraica Usa è divisa. Forse è anche per questo che il fronte anti-accordo sta adottando una linea ancor più dura fino a paragonare Obama a Neville Chamberlain, il premier britannico che nel 1938 firmò a Monaco un accordo con Adolf Hitler che, anziché alla pace, portò alla Guerra mondiale. Furibondo, il presidente ha avvertito la «lobby» ebraica che non è disposto a farsi insultare ed è passato all' attacco con toni di una durezza senza precedenti contro l'organizzazione degli ebrei americani. Che ha negato responsabilità per il paragone con Chamberlain, ma ha fatto convergere a Washington migliaia di attivisti per convincere il Congresso a bocciare il patto con Teheran. Sul piano puramente logico e del confronto dialettico non dovrebbe esserci partita: l'accordo negoziato da Obama non solo è condiviso dalle altre potenze e da tutti i principali partner degli Stati Uniti salvo Israele (alla fine l'hanno accettato, sia pure storcendo il naso, anche vari Paesi arabi sunniti), ma ad appoggiare l'intesa ci sono anche molti ex diplomatici di governi democratici e repubblicani, 29 scienziati esperti di proliferazione nucleare e alcune dozzine di ex generali ed ex ammiragli. Tutti convinti che non c'era modo di spingere Teheran a rinunciare completamente ai suoi programmi nucleari se non con un intervento militare. E che l'accordo, anche se non disarma l'Iran, garantisce margini di sicurezza maggiori di quelli attuali. Insomma gli esperti (inclusi alcuni capi dei servizi segreti israeliani) sono in massima parte arrivati alla conclusione che rimangiarsi a questo punto l'accordo avrebbe conseguenze gravi.
Ma ormai il caso è diventato un braccio di ferro politico negli Usa e qui la forza della lobby  anti-accordo è largamente preponderante. Ora bisogna capire di quanto, perché la battaglia si gioca su pochissimi parlamentari: nel voto sul patto, a metà settembre, Obama verrà sconfitto (a meno che non riesca a mettere insieme una minoranza di blocco di 40 parlamentari al Senato: improbabile). A quel punto porrà il veto presidenziale. Per cancellarlo è necessario un voto con una maggioranza dei due terzi nelle due Camere. Quindi Obama non può permettersi di perdere più di 12 senatori (per adesso le defezioni sono 6) mentre alla Camera ha bisogno di 145 voti: i deputati che hanno confermato al loro capo, Nancy Pelosi, il «si» all'accordo sono, al momento, 152. Ma l'Aipac darà un'ultima spallata con una mobilitazione che l'8 e 9 settembre, in coincidenza con l'inizio del dibattito al Congresso, porterà a Washington migliaia di suoi attivisti decisi a giocare il tutto per tutto. Obama dovrà stare col fiato sospeso fino all'ultimo.

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