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Corriere della Sera Rassegna Stampa
21.04.2015 Ferrara, la Torah e l'eroismo di Bartali al centro del Festival del Libro Ebraico
Commenti di Stefano Jesurum, Aldo Grasso

Testata: Corriere della Sera
Data: 21 aprile 2015
Pagina: 46
Autore: Stefano Jesurum - Aldo Grasso
Titolo: «Racconto aperto - La salita più difficile di Bartali: in bicicletta per salvare gli ebrei»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 21/04/2015, a pag. 46-47, con il titolo "Racconto aperto", il commento di Stefano Jesurum; con il titolo "La salita più difficile di Bartali: in bicicletta per salvare gli ebrei", il commento di Aldo Grasso.

Ecco gli articoli:

Stefano Jesurum: "Racconto aperto"


Stefano Jesurum

Non è un caso che l’edizione 2015 della Festa del Libro Ebraico di Ferrara contenga in sé, e in qualche modo ci giri intorno traendone forza e ossigeno, la mostra «Toràh fonte di vita». Il Libro per antonomasia, la Toràh appunto, è infatti inscindibile da qualunque contesto si voglia occupare di letteratura ebraica e dintorni. Di più: credo sia inscindibile da ogni ragionamento sulla natura stessa della letteratura come sintesi dell’anima e del pensiero di un individuo, di un popolo, di una nazione, di un mondo.

Letteratura è racconto, la Toràh è racconto — scritto o «sulla bocca», vale a dire orale, cioè il Talmùd con le sue interpretazioni rabbiniche, unico, credo, libro sacro che accetti ed esorti la propria messa in discussione. Toràh è prima di tutto insegnamento però, come recita un famoso detto, «la Toràh ha settanta volti» e così una tradizione basata su una grande fedeltà al testo e ai precetti riesce a non divenire fondamentalista. Toràh è memoria, non per nulla a Ferrara sarà reso omaggio allo scrittore Premio Nobel 2014 Patrick Modiano e sarà presente uno degli ultimi sopravvissuti alla Shoàh Samuel Modiano. Toràh è studio, chi studia non invecchia, e le kermesse librarie sono per antonomasia dei giovani. Toràh è sicurezza, non certezza cieca: è la siepe che ripara il giardino e — dicono molti commenti — guai se la siepe prende il posto del giardino. Insomma Toràh, un cuore che dà forza e ossigeno.

Ampliando il concetto, forse con superficialità, direi studio, conoscenza, memoria e trasmissione di memoria come origine di vita. Anche con allegria, gioia, talvolta spiritosa arguzia. Ed ecco che mi si chiede di accennare al libro fondamento dell’ebraismo e a quell’altra caratteristica conosciutissima e apprezzata del pensiero ebraico: l’ironia. Meglio chiamarla autoironia, ché il riso è sì buono ma può essere cattivo se ridicolizza, banalizza, mette alla berlina. Ridere ebraicamente significa ridere di sé e non dell’altro, convivere con la nostra fragilità, le paure, i nostri limiti. Mischiando un po’ confusamente Freud e Pirandello, diremo che l’umorista non ride contro qualcuno, bensì ride con qualcuno della triste condizione umana; resta dentro il paradosso e sopporta di non poterlo risolvere; beffa le certezze manichee, le categorizzazioni, il narcisismo del complesso di superiorità; deride la derisione stessa, scardina il giudizio; sdrammatizza.

È il più potente tra i dispositivi anti-idolatrici, l’idolatria essendo il più grave dei peccati — così spiegano i Maestri —, idolatria intesa come il mettere se stessi al centro dell’universo, il delirio di onnipotenza. Durante la Giornata europea della cultura ebraica che tre anni fa fu dedicata proprio all’umorismo, riascoltammo quanto esemplare sia il primo riso incontrato nella Toràh, quello di Sara allorquando le viene annunciato che avrebbe avuto un figlio. Novantenne da sempre sterile, la moglie del vecchio Abramo ride. L’angelo/messaggero travestito da viandante lo nota e lo sottolinea: ti ho vista, tu hai riso! Poi l’Eterno comanderà loro di chiamare il nascituro Isacco, e in ebraico Itzkhak è legato alla radice del verbo «tzakhak», ossia ridere. Isacco, colui che rise.

Dove il miracolo rappresenta la negazione del senso comune, la realizzazione di ciò che si crede impossibile. Ancora il ribaltamento delle certezze, il disvelamento del pregiudizio, una «battaglia» contro i luoghi comuni. Per non parlare dell’infinito mare dell’umorismo yiddish che gioca con la sofferenza, perfino con la Shoàh, aiutando a superare la dimensione tragica nel suo opposto come via di sopravvivenza. La Festa del libro ebraico di Ferrara 2015 ha come cuore la Toràh fonte di vita. In fondo anche un monito (lo dico «con ironia») a contenere l’ego smisurato che spesso accompagna incontri tra letterati e intellettuali, riso/sorriso come antidoto alla malattia dell’ego dilagante. Perché, dicono sempre i Maestri, l’umorismo è ciò che detronizza il narcisismo. Il tentativo costante, nella concezione ebraica, è affrancare l’uomo da ciò che lo schiaccia, dalle proprie debolezze o complessi e da tutto ciò che ci impedisce di ridere di noi, esaltando invece l’incompletezza, la parzialità fragile della condizione umana cui manca sempre un pezzo, e che non è mai completa.

Aldo Grasso: "La salita più difficile di Bartali: in bicicletta per salvare gli ebrei"

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Aldo Grasso


Gino Bartali

Nel settembre del 2013 Gino Bartali è stato dichiarato «Giusto tra le Nazioni» dallo Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, il massimo riconoscimento attribuito a persone che durante le persecuzioni nazifasciste hanno rischiato la vita per salvare anche solo un ebreo. Bartali, si legge sul sito del memoriale, ha agito «come corriere della rete, nascondendo falsi documenti e carte nella sua bicicletta e trasportandoli attraverso le città, tutto con la scusa che si stava allenando. Pur a conoscenza dei rischi che la sua vita correva per aiutare gli ebrei, ha trasferito falsi documenti a vari contatti e tra questi il rabbino Cassuto».

Il periodo in cui ha lavorato più intensamente per mettere in salvo gli ebrei è stato tra il settembre 1943 e il giugno 1944. Bartali ha dunque contribuito a salvare famiglie perseguitate durante l’occupazione nazifascista: ha pedalato anche per loro, corriere e latore di documenti falsi di una rete clandestina che aiutava centinaia di ebrei nascosti negli istituti religiosi e nelle abitazioni di famiglie coraggiose del Centro Italia. «Fingendo di allenarsi — ha spiegato il figlio Andrea —, il babbo trasportava documenti falsi, nascosti nei tubi del telaio o del manubrio, per dare una nuova identità a persone perseguitate dalle leggi razziali e minacciate dalle deportazioni nei campi di concentramento». In vita, Bartali non ne ha mai parlato: «Certe cose si fanno ma non si dicono». C’è voluta una tesi di laurea, «La Seconda guerra mondiale di Gino Bartali: ebrei, cattolici e dissidenti tra Umbria e Toscana 1943-1944», di Paolo Alberati (oggi consulente sportivo e procuratore di atleti), per riportare alla luce questa storia fuori dell’ordinario.

Ancora il figlio Andrea: «Babbo partiva dal principio che il bene si fa ma non si dice, perché lui considerava una grande vigliaccheria lo speculare sulle disgrazie o sui dolori degli altri, ha fatto sempre tutto in silenzio. Quando il cardinale lo chiamò per dirgli che c’erano circa 14 o 15 mila cittadini ebrei nascosti nelle chiese, nei collegi, presso famiglie amiche, pensò di aiutare questo persone con documenti falsi a raggiungere il porto di Genova, dove avrebbero poi potuto imbarcarsi per l’America o il Sud America. Però, mancava qualcuno che potesse trasportare questi documenti falsi. E la scelta del cardinale ricadde su mio padre. Lo convocò e gli disse: Bisognerebbe che tu portassi questi documenti. Sappi, però, che, se ti trovano, ti fucilano sul posto».

«Quel naso triste come una salita/quegli occhi allegri da italiano in gita»; ne ha fatta di strada Gino Bartali per meritarsi da Paolo Conte versi preziosi che danno, meglio di un trattato antropologico, la rappresentazione frontale del grande campione. Sì, ne ha fatta di strada, in bici, a piedi, pedalando e scarpinando perché non tutti i grandi atleti si assomigliano, e Bartali non è Coppi, uomo solo al comando, baciato dalla grazia, morto giovane e caro agli dei. Ma senza Bartali non ci sarebbe stato Fausto Coppi, e viceversa. Bartali baciapile, paolotto si diceva allora, e Coppi trasgressore, irretito dalla Dama Bianca, fedifrago ma libero pensatore e dunque «moderno».

Bartali teneva appuntato sulla giacca il distintivo dell’Azione Cattolica e Indro Montanelli lo descriveva come il «De Gasperi del ciclismo». Quando nel 1955 abbandonò le corse, Dino Buzzati scrisse sul «Corriere»: «Bartali è stato il vivo simbolo del lavoro umano. Ha lavorato fino all’ultimo, badando a fare tutto il suo dovere meglio che gli era possibile. Ecco la grande lezione di umile onestà». La gloria sportiva e civile di Bartali ha avuto bisogno di tempo per crescere; speriamo impieghi altre generazioni per non essere dimenticata.

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