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Corriere della Sera Rassegna Stampa
25.03.2015 La realtà rovesciata: l'Iran viene dipinto come Paese moderato e ottimo partner contro il terrorimo
Il responsabile è Antonio Armellini

Testata: Corriere della Sera
Data: 25 marzo 2015
Pagina: 29
Autore: Antonio Armellini
Titolo: «Perché all'Occidente conviene l'accordo nucleare con l'Iran»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 25/03/2015, a pag. 29, con il titolo "Perché all'Occidente conviene l'accordo nucleare con l'Iran", l'analisi di Antonio Armellini.

L'articolo di Armellini - ex ambasciatore -  è un conciliante inno rivolto all'Iran, un regime sanguinario (lo ricordiamo noi perché Armellini se ne guarda bene).
1) Secondo il giornalista, in Iran prevalgono le tendenze filo-occidentali. Non si direbbe, a vedere gli omosessuali impiccati nelle piazze, le donne sfregiate con l'acido, le minacce di morte verso Israele, l'antisemitismo di stato ecc.
2) Armellini, inoltre, ritiene l'Iran un partner dell'Occidente nella lotta contro il terrorismo. Dimentica, però, che l'Iran è stato e ancora è il più grande finanziatore mondiale di terrorismo: basti pensare alle milizie sciite libanesi clerico-fasciste di Hezbollah.
3) L'apertura all'Iran è necessaria, secondo Armellini, anche per dare linfa nuova agli scambi economici. In altre parole, propone di barattare la libertà e la giustizia in nome di accordi economici.
4) In conclusione, secondo Armellini "Netanyahu vagheggia una guerra preventiva" contro l'Iran. E' questa la menzogna più grande. Israele, infatti, sostenendo le sanzioni contro l'Iran vuole esattamente cercare di evitare una guerra, che sarebbe invece molto più probabile concedendo agli ayatollah di Teheran la bomba atomica su un piatto d'argento.

Ecco l'articolo:



Antonio Armellini

L’Iran è un Paese in crisi, certo, ma con un forte senso identitario, una civiltà antica e una infrastruttura moderna. Il rapporto con l’Occidente è stato a lungo un misto di sudditanza e di sfruttamento, su cui sarebbe utile un esame di coscienza (dall’arroganza del cartello petrolifero delle «Sette sorelle» alla cacciata di Mossadeq che aveva inutilmente tentato di opporvisi, alle vicende dello Scià Reza Pahlevi, sono stati molti i messaggi sbagliati). La rivoluzione khomeinista è stata una reazione aberrante e irrazionale di totale rottura con il passato, in nome di una teocrazia che poteva contare su un forte consenso di massa e che ha impiegato molto tempo per mostrare le prime crepe.

La stragrande maggioranza della popolazione è rimasta tuttavia filoccidentale e guarda convintamente al «modello americano»: basta qualche giorno nel Paese per rendersene conto. Dovremmo tenerlo a mente mentre il negoziato sul nucleare è alla stretta finale, in un guazzabuglio di manovre e di pressioni che rischiano di fare perdere di vista l’obiettivo di fondo. L’Iran è uno dei firmatari del Trattato di non proliferazione (Tnp), riconosce l’obbligo di sottostare al regime di controlli previsto dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e rivendica il diritto di sviluppare la sua industria nucleare a fini pacifici.

Non è un problema facile. Il regime degli Ayatollah continua ad essere il riferimento di una politica di profondo contrasto agli interessi dell’Occidente. Dispone di un insieme di conoscenze scientifiche, che permetterebbero alla sua industria nucleare di raggiungere in tempi relativamente brevi una capacità militare, e ha dato in più occasioni prova di non rispettare gli impegni. Quello della «bomba iraniana» è tutt’altro che un caso di scuola teorico. Ricondurre Teheran al rispetto di un regime internazionale di controlli che renda, se non impossibile, quantomeno difficile e prolungata nel tempo questa eventualità, resta un'esigenza imprescindibile.

L’equilibrio fra concessioni e condizioni nel negoziato presuppone una valutazione di costo-beneficio che vada al di là degli aspetti tecnici: il regime Aiea, se applicato seriamente, offre già garanzie adeguate in questo senso. Tutto ciò non cancella i margini di rischio, peraltro insiti in qualsiasi tipo di accordo, ma è importante vedere quali sarebbero le implicazioni dell’ipotesi contraria.

Teheran è un interlocutore fondamentale nella partita degli equilibri del mondo arabo e della lotta al terrorismo. Finora ha giocato una carta che non coincide con quelle dell’Occidente, ma l’interesse ad una stabilizzazione meno precaria potrebbe essere comune ad entrambi. Un accordo rafforzerebbe l’ala moderata che fa capo al presidente Rouhani e, pur facendo la tara dell’imprevedibilità del regime, potrebbe recuperare l’Iran a un dialogo costruttivo, senza il quale qualsiasi ipotesi di stabilizzazione della regione rischierebbe di diventare una chimera.

Non si tratterebbe di far diventare l’Iran sciita una democrazia parlamentare (genere peraltro scarsamente praticato nella regione), bensì di farne un interlocutore legittimato. Senza dimenticare che, con la fine delle sanzioni, si aprirebbero nuovamente la porte di un mercato importantissimo, che è sin qui sopravvissuto in forme quasi clandestine. Un fallimento spingerebbe nuovamente l’Iran ai margini della legittimità internazionale e ridarebbe fiato all’ala più intransigente della teocrazia, che non a caso si agita per sabotarne l’esito.

Parlare di dialogo, per quanto cauto, sui temi della regione diverrebbe utopia e l’Occidente dovrebbe prepararsi ad affrontare una situazione sempre più ingestibile dal punto di vista dei suoi interessi. Non per questo la prospettiva della bomba iraniana si farebbe meno certa: le sanzioni non hanno mai impedito a nessuno di dotarsi dell’arma nucleare in barba a tutte le norme internazionali: come dimostrano la Corea del Nord, il Pakistan, l’India e lo stesso Israele.

Obama punta a un accordo che potrebbe ridare smalto alle prospettive elettorali del suo partito; per tali ragioni i repubblicani cercano di sabotarlo con qualche forzatura di troppo del diritto internazionale. Netanyahu vorrebbe cancellare del tutto la capacità nucleare iraniana, che vede come un problema di sopravvivenza del suo Paese, e vagheggia una guerra preventiva che nessuno vuole. L’Ue cerca di uscire dal balbettio sterile e recuperare un ruolo. Tutto legittimo, ma l’obiettivo dovrebbe essere non di escludere, bensì di allargare il cerchio dei protagonisti responsabili della scena mediorientale.

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