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Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 26/11/2014, a pag. 48, con il titolo "L'impossibile coesistenza di harem e modernità", il commento di Gian Antonio Stella.
«In Turchia le donne si sono tolte il velo 90 anni fa, e non ammetterò che una delle mie figlie rinunci ai diritti che il grande comandante Atatürk ha concesso alle donne di questo Paese», dice accigliata nonna Gülsüm ne La bastarda di Istanbul di Elif Shafak. E a leggere le ultime sortite del presidente turco Recep Tayyip Erdogan («Porre donne e uomini sullo stesso piano è contro natura. Uomini e donne non sono uguali. Sono stati creati diversi. La loro natura è differente») c'è davvero da rimpiangere il padre della Turchia moderna Mustafa Kemal Atatiirk. Scrive Fatema Memissi in L'harem e l'Occidente: «Negli anni Venti, la Turchia era la sede di una lotta radicale contro le tre forze percepite come strettamente connesse: dispotismo, sessismo, decolonizzazione. Il movimento dei Giovani Turchi attribuiva al governo dispotico del sultano la colpa dell'arretratezza musumana, causa, a sua volta, della facilità con cui gli eserciti occidentali avevano invaso quei Paesi. Essi attaccavano l'istituzione dell'harem e la reclusione delle donne come il maggiore ostacolo al progresso, perché delle madri ignoranti non potevano produrre altro che figli e figlie impreparati. I Giovani Turchi bandirono gli harem nel 1909 e il sultano dovette aprire le porte e liberare le sue ex schiave, ora cittadine della prima Repubblica della storia musulmana. La politica femminista e democratica di Kemal Atatiirk diede frutti immediati. Il codice civile turco adottato nei 1926 mise fuori legge la poligamia, garantì uguali diritto di divorzio a entrambi i coniugi, così come diritto alla custodia dei figli per le madri». Di più: nel 1925 Atatürk vieta con la legge n.1341 agli uomini l'uso del fez negli uffici pubblici e alle donne il carsaf, un copriabito nero che le avvolgeva da capo a piedi: «Solo le donne han diritto a decidere se coprirsi il capo o no». Per inviare la propria opinione al Corriere della Sera, telefonare 02/62821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante lettere@corriere.it |
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