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Shalom Rassegna Stampa
02.04.2017 50 anni dopo: Gerusalemme unita, la guerra dei 6 giorni
Commento di Piero Di Nepi

Testata: Shalom
Data: 02 aprile 2017
Pagina: 22
Autore: Piero Di Nepi
Titolo: «Sei giorni per 50 anni»

Riprendiamo da SHALOM marzo 2017, a pag.22, con il titolo " Sei giorni per 50 anni " il commento di Piero Di Nepi

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Foto di David Rubinger, davanti al Kotel liberato

La Guerra dei sei giorni cambiò in modo definitivo il corso degli eventi del Novecento, e non soltanto sulle sponde del Mediterraneo. Tutto ebbe inizio alle 7.45, ora di Israele, lunedì 5 giugno 1967. Mezzo secolo dopo, il 2017 è un anno di anniversari con il numero 7, che segna con i tre del 5777 anche il calendario ebraico. Ma restiamo in quello civile. Rivoluzione russa, e poi sovietica, 1917. Caporetto, 1917: è spesso Caporetto, qui da noi in Italia. Ancora 1917, 2 novembre, dichiarazione Balfour: al popolo ebraico il governo britannico garantisce “a national home” nella terra delle origini liberata dal dominio ottomano. Novembre 1977: Anwar el-Sadat, Presidente dell’Egitto e vincitore “a tavolino” della guerra di Kippur, si presenta a Gerusalemme per la pace definitiva con Menachem Begin, il leader più nazionalista che mai abbia governato il sionismo realizzato, cioè lo Stato di Israele. Sadat pagherà con la vita il suo coraggio. Quattro anni dopo fu assassinato dal terrorismo islamista. Del quale l’Occidente si è accorto soltanto quando ha iniziato a colpire le grandi capitali anche in luoghi non ebraici. Troppi anniversari. Non basterà incrementare l’hasbarà (spiegazione e controinformazione). Non basterà vantare i premi Nobel del Technion e l’agricoltura avveniristica nel Negev, e neppure arrabbiarsi se - come certamente accadrà - le accuse contro l’amministrazione israeliana nei territori sconfineranno nell’antisemitismo esplicito: a sinistra (“l’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli”, insegnavano Bebel e Lenin) come a destra (gli ebrei scelgano il passaporto giusto, come suggerisce Marine Le Pen). Inutile anche ricordare che il West Bank del Giordano non risulta “occupato” bensì amministrato, in forza del diritto internazionale e in attesa di una pace definitiva che riconosca allo Stato ebraico confini sicuri e riconosciuti (secure and recognized boundaries, Onu, Risoluzione numero 242 del Consiglio di Sicurezza, 22 novembre 1967). Che poi in Israele e nel mondo ebraico siano non pochi coloro che vorrebbero adattare i fatti alla propria interpretazione, sulle aride colline del deserto di Giuda, ebbene questa è un’altra storia. Oggi pochi ricordano che i soldati della Zavà furono accolti come liberatori, a Hebron, a Ramallah e a Gerico in quella sera lontanissima di mercoledì 7 giugno del 1967. Durante i mesi successivi gli israeliani portarono acqua corrente, elettricità, scuole elementari, investimenti, vaccinazioni, lavoro e fognature. Lo status quo prodotto dai sei giorni, e poi dalla tregua nella guerra cosiddetta “di attrito” sulle sponde del Canale di Suez, durò più o meno fino all’estate del 1973. Ma la storia non fa sconti, e la memoria breve compromette ogni possibilità di risolvere le crisi del Medio Oriente. Gli Stati arabi rifiutarono il voto ONU del 29 novembre 1947. Sul territorio di Erez Israel (ovvero la Palestina sotto il mandato britannico istituito con i Trattati di Sèvres, 1920) dovevano nascere due Stati: uno ebraico e uno palestinese. Per la Vecchia Gerusalemme e per Betlemme si prevedeva un’amministrazione internazionale. La prima guerra per l’indipendenza di Israele si concluse nel 1949 con gli armistizi di Rodi. Gli arabi consideravano provvisori gli accordi, in attesa di riprendere le ostilità per la distruzione dello Stato ebraico. Cercavano l’occasione giusta. Alla fine di ottobre del 1956 David Ben Gurion decise di affiancare l’esercito di Israele alla spedizione anglo-francese per il recupero del Canale di Suez, che il presidente egiziano Nasser aveva espropriato. L’obiettivo di Ben Gurion era non solo quello di aprire il Mar Rosso e il Canale alle navi israeliane, ma anche risolvere finalmente il problema di Gaza. A Gaza infatti erano stati isolati e concentrati già nel 1950 decine di migliaia di arabi palestinesi con l’unico scopo di minacciare i kibbutzim di frontiera, ricattare la comunità internazionale, trasformare gli aiuti ONU nel pozzo senza fondo ancora oggi esistente. Chi non ci crede può consultare il sito UNRWA. Non sciogliamo la sigla, per tanti sarà una sorpresa. Naturalmente, all’ONU nulla di analogo fu istituito per l’assistenza agli ebrei espulsi dai paesi arabi tra il 1947 e il 1967. Infatti vale anche al palazzo di vetro il più perfido dei pregiudizi antiebraici: “Che bisogno c’è? Tanto quelli si aiutano fra loro…”. E così nel maggio del 1967 il presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser, con lo scopo di migliorare il proprio vacillante prestigio compromesso dalla guerra contro i sauditi per il controllo dello Yemen, dichiarò all’intero mondo islamico che avrebbe ben presto “buttato a mare” gli ebrei di Israele. Levi Eshkol (il premier), Moshe Dayan (responsabile della sicurezza nazionale, ministro della difesa) e Yitzhak Rabin (capo di stato maggiore) non sottovalutarono le minacce di Nasser. Andò come andò, e 6 anni dopo neppure la guerra di Kippur 5734 portò modifiche allo status della Riva Occidentale. Nel corso dei decenni successivi, qualcosa è cambiato anche dalla parte israeliana. Già nel 1947 i mistici delle yeshivot avevano visto nella spartizione una dolorosa rinuncia a qualcosa di non negoziabile, la terra promessa nella Torà al popolo ebraico. A Rodi i negoziatori israeliani avevano accettato confini indifendibili, pur di non includere una quantità potenzialmente pericolosa di cittadini arabi. Oggi il sionismo laico e socialista praticamente non esiste più, e l’ebraismo liberal se ne sta con tranquilla soddisfazione a Belgravia, a Manhattan e Avenue Foch. Certo, comincia squillare qualche inquietante campanello d’allarme tra le centinaia di lapidi distrutte di Saint Louis e di Philadelphia. Ma in Israele la voce dell’ebraismo Haredi suona forte e chiara, e i più determinati sono molto giovani e molto numerosi. Tra loro, la disponibilità al compromesso territoriale sembra scarsa. Tuttavia, il conflitto israeliano-palestinese equivale a un paio di provincie italiane di medie dimensioni, e i 5.640 chilometri quadrati del West Bank includono anche Gerusalemme Est. Infatti, i Territori si estendono esattamente sulle aree rimaste sotto il controllo dei giordani dopo gli armistizi del 1949. Citando Pirandello: “Così è (se vi pare)”.

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