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L'Espresso Rassegna Stampa
10.09.2017 L'Espresso & Israele: l'ideologia dell'intervistatrice e il commento di un pseudo esperto
Roberta Zunini e Gigi Riva non la contano giusta

Testata: L'Espresso
Data: 10 settembre 2017
Pagina: 14
Autore: Roberta Zunini-Gigi Riva
Titolo: «Non ci sarà mai pace in queste terre-Gli islamici si sparano e Netanyhau dorme tranquillo»

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Prima di esprimere un giudizio sui pezzi di Roberta Zunini e Gigi Riva, consigliamo la lettura dell'intervista di Wlodek Goldkorn a A.B.Yehoshua, un esempio di come un giornalista abitualmente molto critico nei confronti di Israele,Goldkorn, abbia riportato in modo accurato il pensiero dello scrittore israeliano, che negli ultimi anni ha modificato - e di molto - alcuni giudizi che oggi, giustamente, classifica 'chiacchiere'.
Di Roberta Zunini, della quale non riprendiamo l'intervista a Daniel Luria non essendo uscita online, basta ricordare che collabora al Fatto di Travaglio, per inquadrarne la credibilità.
Riprendiamo invece il commento di Gigi Riva, a pag.14/15, richiamando il titolo " Gli islamici si sparano e Netanyhau dorme tranquillo" sufficiente per catalogarlo non solo inattendibile - esilarante la telefonata notturna del re saudita a Arafat!  forse Riva aveva con lui un rapporto confidenziale speciale?- per rendersi conto della fuffa che Riva propina ai lettori. Nelle ultime righe dimostra persino di non aver capito la posizione di A.B.Yehoshua.
 
Gigi Riva: " Gli islamici si sparano e Netanyhau dorme tranquillo"

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Gigi Riva

Una ricostruzione romanzata ma non troppo vuole che nel 2000 a Camp David andò più o meno così. II presidente americano Bill Clinton sl corico pensando dl aver fatto una fetta importante di storia perché mediatore dell'accordo di pace finalmente raggiunto tra israeliani e palestinesi: andava verso la fine del suo secondo mandato e quello era II coronamento massimo. Ehud Barak, il premier israeliano, faticò ad addormentarsi al pensiero dl come avrebbe reagito il suo popolo alle "concessioni" che sarebbero state giudicate senz'altro "troppe". Ma aveva una carta di riserva: quelle "concesslonl" (arrivò a promettere II 93 per cento dei Territori occupati) le aveva declinate oralmente, non c'era alcun documento scritto. Quanto a Yasser Arafat, il leader palestinese, fu svegliato nel cuore della notte da una telefonata dl re Fahd dall'Arabia Saudita che lo metteva in guardia: «Non firmare quegli accordi. Gerusalemme non è affare solo del popolo palestinese ma di tutto li mondo arabo•. SI riferiva alfa spartizione prevista della Città Santa, terzo luogo sacro in ordine d'importanza dell'Islam. Arafat capì che, una volta tornato in patria, sarebbe stato un dead man walking. E, con un voltafaccia clamoroso rispetto alle promesse ante-sonno, la mattina seguente non firmò. La pace svanì, non si era mai arrivati tanto vicini. I successivi tentativi sono tutti abortiti prima ancora di sedersi attorno a un tavolo. Da allora sono successe tante cose. L'11 settembre, la guerra in Iraq, la guerra tra Israele e Libano, alcune guerre nella Striscia di Gaza, la nascita, l'affermazione e il tramonto dello Stato islamico, il conflitto intraconfessionale tra sunniti e sciiti. Scivolata nel limbo di uno status quo da cui i duellanti sembrano non poter uscire (i palestinesi per la spaccatura tra Fatah e Hamas oltre alla mancanza di leadership, gli israeliani perché a loro va benissimo così), l'ormai secolare disputa sulla Terrasanta è uscita dalle urgenze del cono mediatico per essere sorpassata dalla sfida di al-Baghdadi. Si è dunque sostituita una rivendicazione nazionale, il diritto dei palestinesi ad avere uno Stato, con l'idea internazionalista della riunione dei musulmani in un unico Stato: la Umma di tutti i credenti dalle montagne dell'Atlante (Marocco) all'Indonesia. Una conseguenza anche del confronto tra sciiti e sunniti. Cambiando le prospettive, sono cambiati anche gli amici e i nemici. La storia che procede fa assumere geometrie variabili, a dispetto dell'immobilità ormai cronica del contenzioso più antico. Così Israele e Arabia Saudita, ad esempio, si trovano concordi nell'allarme lanciato contro gli ayatollah e il loro sogno nucleare. Così alla stessa Israele non dispiace una Siria destabilizzata e minaccia minore ai suoi confini rispetto a quando era coesa dietro al regno degli Assad. Nel variegato mondo arabo, la questione palestinese è almeno per il momento accantonata perché l'attenzione si sposta sulla supremazia interna: chi prevale tra l'asse sciita sulla linea TeheranDamasco-Beirut e l'asse sunnita con capitale Riyad? Sempre che, sospetto perenne, la questione palestinese non fosse, anche in passato, un pretesto per muovere guerre (tutte perse, peraltro) contro l'odiata Israele. II risultato è che Israele non ha mai goduto di tanta tranquillità, proprio perché il fronte nemico si sfalda e si scanna. L'economia marcia veloce, la supremazia non è in discussione. Se dunque lo Stato ebraico resta centrale nell'interesse del mondo è per cause esogene rispetto alla regione. Come il timore per le sue sorti dell'amministrazione americana, con Donald Trump che è tornato a costruire un rapporto privilegiato dopo le incomprensioni tra Netanyahu e Obama. Un riawicinamento che ha come corollario la denuncia dell'accordo, peraltro firmato dal primo presidente nero a Washington, con gli ayatollah. E che si trascina la necessità, pure strategica, di conservare la stabilità del regno hashemita di Giordania, e di un Egitto che l'ha ritrovata a prezzo della dittatura sanguinaria e repressiva di al-Sisi: entrambi alleati (il Cairo più freddamente) dell'Occidente. Dunque in questa debolezza e isolamento dei palestinesi, tramonta la soluzione due popoli-due Stati. Sulla quale pesa come un'ipoteca la progressiva occupazione di fette di Cisgiordania da parte dei coloni, lobby già potente, ora potentissima. E comincia a far capolino l'ipotesi dello Stato binazionale (Yehoshua ne è un fautore come spiega nel colloquio con Wlodek Goldkorn). Che ha un problema per i puristi dei sionismo: Stato binazionale significa fine dello Stato ebraico.

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