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L'Espresso Rassegna Stampa
19.05.2008 Il Libano nelle mani di Hezbollah
l'utilità ( o l'inutilità) di Unifil 2 e le prospettive di pace di Israele con la Siria e con i palestinesi

Testata: L'Espresso
Data: 19 maggio 2008
Pagina: 0
Autore: Antonio Carlucci - Lally Weymouth
Titolo: «Nelle mani di hezbollah - Gerusalemme tra Gaza e Damasco - Sul campo a garanzia della pace»
Da L'ESPRESSO del 19 maggio 2008 sulla situazione in Libano:

Quando venerdì 2 maggio il leader druso Walid Jumblatt ha denunciato che Hezbollah possedeva una rete telefonica in uso esclusivo alla sua organizzazione politico-militare, nessuno è stato in grado di prevedere che il Libano sarebbe arrivato nel giro di pochi giorni alle soglie di una nuova guerra civile. A cominciare dal premier Fouad Siniora che ha guidato per una lunga notte, dalla sera di mercoledì 7 all'alba di giovedì 8 maggio, una discussione sul che fare.

Il premier e i suoi ministri dovevano decidere se chiudere la rete telefonica che non era collegata a quella libanese ed era invece connessa a quella della Siria, e, quindi, all'Iran, i due padrini di Hezbollah. E anche se licenziare il generale Wafiq Shoucair, responsabile della sicurezza dell'aeroporto di Beirut e di tutte le comunicazioni del Paese. Racconta a 'L'espresso' un ministro che vista la piega degli avvenimenti chiede di restare anonimo: "È andata avanti per una notte intera per due ragioni: abbiamo cercato di valutare quale sarebbe stata la reazione di Hezbollah e abbiamo cercato di capire che cosa sarebbe successo visto che quella denuncia era già stata fatta un anno fa dal ministro delle Telecomunicazioni Marwan Hamade e non era accaduto nulla".

Adesso invece è sceso in pista in prima persona il leader del Partito di Dio, Hassan Nasrallah. Non chiamava i giornalisti per una conferenza stampa dal luglio del 2006, quando Hezbollah rapì un paio di soldati israeliani e poi ingaggiò cinque settimane di guerra contro Israele. Le sue parole non potevano essere male interpretate: "Voglio ricordare che quando fu costruita l'alleanza di governo di cui Hezbollah faceva parte, la rete telefonica esisteva. E nessuno considerò questa una violazione della sovranità del Libano e della legge. E quando noi entrammo al governo, fu emesso un comunicato sulla resistenza e le sue armi: e questa rete di comunicazione ne fa parte integrale". E visto che anche gli israeliani hanno scritto nelle loro analisi post guerra che la rete di comunicazioni di Hezbollah fu uno degli elementi che impedirono la vittoria, Nasrallah ha detto chiaro che chi tocca le loro comunicazioni muore.

Dalle parole ai fatti. Sono spuntati subito gli uomini armati. Ci sono stati gli assalti alle sedi dei sunniti, l'etnia musulmana di Siniora e del capo del partito di maggioranza Saad Hariri con il rogo di tv (Future) e di giornali, con il seguito di morti. E dopo gli scontri di Beirut, ne sono cominciati a Tripoli, città a maggioranza sunnita, e nello Chouf, la montagna che fa da corona alla capitale libanese e che è il regno di Walid Jumblatt. Il Paese, con l'esclusione della parte a sud del fiume Litani dove vigilano i soldati della missione Unifil, ha cambiato volto nel giro di poche ore: a ogni crisi, a ogni avvisaglia che la parola è passata alle armi, le strade si svuotano, gli uffici chiudono, i negozi hanno tutti la serranda abbassata, bar e ristoranti sono deserti. In attesa che la tempesta passi, solo la finanza non perde colpo: ma per evitare fastidiosi equivoci il governatore della Banca del Libano, Riad Salameh, ha subito fatto sapere che non era cominciata la corsa ad accaparrare dollari in contanti, il segno più evidente che la crisi veniva considerata superabile.

Hezbollah ha seguito una strategia precisa: a fare da apripista negli scontri non erano i miliziani del Partito di Dio, ma gli armati di gruppi e gruppetti filosiriani che sono legati a Nasrallah. Risultato: Hezbollah ha dimostrato di essere in grado di mettere a ferro e fuoco il Paese nel giro di poche ore, ma non ha portato alle estreme conseguenze le sue scelte armate; il governo Siniora ha fatto un passo indietro delegando all'esercito e al suo comandante in capo, il generale Michel Suleiman (è anche l'unico candidato a diventare presidente della Repubblica con un voto parlamentare che viene rinviato di settimana in settimana da novembre del 2007), le questioni rete telefonica e generale Shoucair.

L'Armée libanese è così diventato il perno della partita politica, che i suoi capi hanno dimostrato di voler gestire con prudenza visto che non sono mai intervenuti a sedare gli scontri armati, ma sono stati prontissimi a prendere in consegna gli edifici già bruciati nel corso degli attacchi o i punti nevralgici del Paese dopo il ritiro dei miliziani armati. "Da oggi in poi l'esercito giocherà un ruolo centrale", sostiene Paul Salem, il capo della sezione Medio Oriente del think tank americano Carnegie Endowment for Peace: "Ed è certamente più forte da un punto di vista politico anche se resta debole come forza militare".

Chi, invece, ha lavorato intensamente per ricostruire la forza perduta nel conflitto, riarmare i propri arsenali e costruire lo Stato di Hezbollah dentro lo Stato del Libano è il gruppo dirigente del Partito di Dio. "Qualsiasi discussione dovesse cominciare, Hezbollah ha una posizione ancora più forte al tavolo dei negoziati", è l'analisi di Ousama Safa, politologo a capo del Centro libanese di studi politici: "Ed è certo che gli avvenimenti di questi giorni dicono che ormai la questione degli arsenali di Hezbollah e del disarmo resta fuori da qualsiasi tavolo di trattativa".

La forza militare di Hezbollah nasconde tuttavia un punto di debolezza e di contraddizione che in un periodo medio lungo può rivelarsi decisivo nel confronto degli equilibri di potere. Se è vero che la prova di piazza ha sicuramente compattato gli sciiti, che vedono in Hassan Nasrallah il riferimento religioso, politico e di vita quotidiana (dalla scuola alla sanità, dal welfare al lavoro), è vero anche che nella testa di tantissimi libanesi di tutte le etnie e religioni, che vedevano nel Partito di Dio la 'resistenza contro Israele', comincia a farsi largo un interrogativo. Ma per quale motivo i miliziani sciiti e i loro alleati hanno sparato sui libanesi? Allora quelle armi non sono pronte solo per rispondere agli attacchi degli israeliani! Alla fine, il confronto di questi giorni ha lasciato sul terreno più di 20 morti, tutti libanesi. Quel dubbio può aprire un solco molto profondo all'interno di una parte non piccola di cittadini che, pur non amando Nasrallah, ne magnificava la capacità di portare guerra al nemico storico.

E il governo di Fouad Siniora, che ha resistito quasi due anni all'assedio fisico e politico di Hezbollah e dei suoi alleati, che ha mantenuto il Paese in pace riuscendo a mettere in moto il processo di ricostruzione post guerra? "Di sicuro non si aspettavano una reazione così violenta", è il commento di Ousama Safa, sciita e responsabile del Centro libanese di studi politici: "E gli incidenti e gli scontri di questi giorni non possono essere classificati come un tentativo di colpo di Stato". Resta il fatto che l'alleanza di governo che comprende i sunniti del partito di Hariri, i drusi di Jumblatt, i cristiano maroniti di Amin Gemayel e Samir Geagea (ma non quelli legati all'ex generale Michel Aoun che invece è al fianco di Nasrallah e dei suoi miliziani), è oggi più debole. "Sembra evidente che il governo non è più in grado di porre condizioni a Hezbollah", è il parere di Paul Salem.

Il ritorno alla normalità in salsa libanese - significa strade ancora bloccate da barricate, aeroporto non ufficialmente chiuso ma dove nessuno vola, frontiere con la Siria aperte a intermittenza - ha rimesso sul tavolo le richieste con cui Hezbollah assedia il governo Siniora dalla fine del 2006: nuovo esecutivo di unità nazionale in cui il Partito di Dio abbia un terzo dei voti che gli consenta di bloccare tutto ciò che non gli piace, nuova legge elettorale che tenga conto dell'esplosione demografica degli sciiti, elezioni politiche generali. Solo dopo, o al massimo dopo l'uscita di scena di Siniora e la formazione di un nuovo governo, sarà eletto il nuovo presidente della Repubblica.

Così si è recitata per la diciannovesima volta da novembre a oggi la commedia del comunicato emesso dal presidente del parlamento, lo sciita che è anche leader del partito di Amal, Nabih Berri. L'uomo politico che si vuole accreditare come il mediatore tra le parti, ma che è sempre schierato al fianco di Hezbollah, ha fatto sapere: "Vista la situazione, il parlamento è convocato per la elezione del presidente della Repubblica il prossimo 10 giugno". Ci credono in pochi che quel giorno il Libano avrà un nuovo inquilino a Baabda, il palazzo presidenziale.

 In seguito alle accuse mosse al premier d'Israele Ehud Olmert, secondo le quali egli avrebbe accettato centinaia di migliaia di dollari di contributi illegali da un sostenitore americano quando era sindaco di Gerusalemme, Olmert si è impegnato a non dimettersi, se non di fronte a una incriminazione formale. In questa intervista parla, oltre che del suo problema personale, anche di Libano, Siria, Iran e delle trattative di pace coi palestinesi.

Un'intervista a Ehud Olmert:

Signor Olmert, ritiene possibile un accordo di pace coi palestinesi? Abu Mazen pare scettico.

"Sia io sia Condoleezza Rice siamo ottimisti sulle chance della pace".

Lei crede ancora che ci si spossa arrivare entro fine anno?

"Sì, a una bozza dettagliata sulla soluzione che prevede due Stati".

Includerebbe Gerusalemme e i punti più complessi, come le frontiere o i rifugiati?

"Alcuni di questi aspetti saranno discussi in un secondo momento. Il futuro di Gerusalemme è uno di questi. Probabilmente sarà l'ultimo a essere discusso".

Sarà risolto tra lei e Abu Mazen?

"Forse sì, in una fase successiva".

Lei è in ottimi rapporti con Abu Mazen. È così?

"Sì, ci incontriamo molto spesso. Più o meno due volte al mese. Non so di altri leader di nazioni che si vedano così spesso".

A che punto sono i colloqui?

"Avanzati abbastanza da giustificare gli sforzi e la nostra volontà di continuare".

Ritiene che Israele possa rinunciare agli insediamenti, ritirandosi alle frontiere precedenti al 1967?

"Posso dire che le frontiere, una volta concordate, saranno più vicine a quelle del 1967 che a quelle attuali, perché rinunceremo a una vasta porzione dei territori nel contesto di una pace piena e della fine totale di ogni ostilità".

Questo vuol dire che i palestinesi rinunceranno al diritto al ritorno?

"Non credo debbano rinunciarci. Non hanno un diritto al ritorno e questo non è all'ordine del giorno per quanto ci riguarda. Comunque penso che la distanza tra noi e loro non sia insormontabile. Tre questioni possono essere risolte: una è quella territoriale, l'altra è quella degli accordi sulla sicurezza e la terza riguarda i rifugiati".

Lei vuole la pace con la Siria: pensa sia raggiungibile con il presidente Bashar al-Assad al potere?

"Siamo molto dispiaciuti per la continua e massiccia ingerenza della Siria negli affari libanesi, nonché per l'assenza di un processo democratico e di elezioni per un nuovo presidente nel Libano. Siamo anche dispiaciuti per i rapporti senza soluzione di continuità tra Iran, Siria, Hezbollah e Hamas.

I rapporti tra noi e la Siria devono essere riesaminati, così come la possibilità di raggiungere la pace. Non è una cosa che si possa fare pubblicamente. Non mi disturba che il presidente Assad abbia annunciato che ci saranno negoziati, ma i negoziati in quanto tali dovrebbero svolgersi senza clamore. In linea di principio, noi siamo pronti, se loro lo sono".

Per ottenere una pace piena con Israele, la Siria dovrebbe rompere con l'Iran. Lo ritiene possibile?

"Non lo so. Ma se non lo verifico, non lo saprò mai. Credo che la Siria non potrà scegliere diversamente".

Gli Stati Uniti hanno mostrato apprensione per un certo periodo riguardo ai negoziati israelo-siriani...

"La stampa ha diffuso l'impressione che gli Stati Uniti non permettono a Israele di impegnarsi in negoziati con la Siria. Non è vero. Non ho mai avuto dal mio amico George Bush sollecitazioni a non negoziare con i siriani. Se i siriani gestiranno i negoziati con noi in maniera appropriata, rimarranno sorpresi di quanto potranno migliorare la loro posizione nei confronti degli Stati Uniti. Nessuno può aiutare questo processo più del presidente Bush. Perché ogni nuovo presidente degli Stati Uniti al momento di affrontare questa questione, è costretto ad aspettare almeno due anni prima di saperne a sufficienza. Nel caso della Siria, la strada verso Washington incrocia Gerusalemme".

Si dice che alcuni funzionari del governo Usa siano preoccupati

del fatto che il vero prezzo della Siria per la pace sia il Libano.

Gli Stati Uniti sono interessati alla sopravvivenza del governo Siniora.

"So quali sono le nostre aspettative. So quali sono le aspettative degli Usa. Non farò niente che sia in contrasto con gli interessi degli Stati Uniti in questa regione".

Quindi si tratta di un semplice negoziato sul Golan?

"Non ho detto questo. Ho detto che si tratta di un tentativo di raggiungere la pace tra Israele e Siria. E di garantire che gli interessi di un Libano libero e democratico siano salvaguardati".

Come valuta Assad?

"Esercita un controllo alquanto efficace sul suo paese. I negoziati con lui potranno essere proficui".

Che farà riguardo alla situazione a Gaza? Le vostre città continuano a essere colpite da missili. Si sta arrivando al punto in cui lei non avrà altra scelta se non agire?

"Si ha sempre la possibilità di scegliere".

Vi sarà un cessate il fuoco con Hamas negoziato dagli egiziani?

"Non è questione di una pace

tra noi e Hamas negoziata

da qualcuno. La questione è se l'Egitto capirà e sosterrà

le condizioni avanzate da Israele. Hamas dovrà fermare ogni azione terroristica. Porre fine a tutte le azioni violente significa porre fine al contrabbando di armi verso Gaza".

Passiamo alle indagini che lei deve affrontare.

"Le sto affrontando e, trattandosi di questioni legali, non posso parlarne. È spiacevole. Si riferiscono soprattutto ai contributi per la campagna elettorale".

Ha pensato alla possibilità di dire: "Ok, mi dimetto".

"Non che le persone siano indispensabili. Ma non penso che darei alcun contributo rinunciando alla carica. Devo riflettere sulle conseguenze di un mio ritiro prematuro. Non sono nato per essere primo ministro e non resterò qui fino alla fine della mia vita. Sono troppo giovane per questo. Ma ritirarmi sarebbe un errore e ho un compito da assolvere: la pace. Che ritengo possibile in questo periodo più che mai".

È per quanto riguarda l'Iran?

Lei ha detto che non era

possibile tollerare armi nucleari.

"È così. Israele non tollererà un'arma nucleare nelle mani di persone che pubblicamente affermano di voler cancellare il nostro Paese".

Sarebbe Israele capace di colpire gli impianti nucleari iraniani?

"Non voglio dover entrare nell'argomento. Gli Stati Uniti stanno guidando uno sforzo internazionale per fermare la nuclearizzazione dell'Iran.

I Paesi europei, i russi, i cinesi,

i giapponesi, tutte le nazioni più potenti del mondo si sono unite in uno sforzo per fermare

la nuclearizzazione dell'Iran. Mi auguro un loro successo".

Ma Ahmadinejad non ha detto recentemente di avere aggiunto altre 6 mila centrifughe al suo programma e di averle installate

e messe in funzione?

"Dobbiamo ascoltare ciò che dice, ma non vuol dire che dobbiamo credere a tutto ciò che dice".

'Newsweek' - 'L'espresso' traduzione di Guiomar Parada

Un'intervista al comandante di Unifil,  generale Claudio Graziano, che rivendica il successo della sua missione mentre in Libano si rivela il potere di Hezbollah, non sfidabile dal governo:

Il generale Claudio Graziano è il comandante dei 13 mila soldati che sono in Libano sotto le bandiere dell'Onu.

Che impatto ha sulla missione Unifil

la situazione di Beirut?

"Gli effetti non sono eclatanti. Ce ne sono di natura logistica e non erano inattesi. Già dopo le tensioni dell'anno scorso avevamo predisposto come far fronte a eventuali problemi di approvvigionamento e di flusso dei peacekeepers. Gli avvenimenti di questi giorni ci dicono anche che Unifil è ancora più importante essendo l'unico elemento di stabilizzazione locale e regionale".

Se non ci fossero i soldati Unifil la situazione potrebbe degenerare in guerra aperta?

"Unifil è una delle poche garanzie che sia rispettato il cessate il fuoco nell'area a sud del fiume Litani e, soprattutto, che non ci siano le ragioni per una ripresa delle ostilità. Le parti in causa lo sanno bene e sono certo che anche Israele è soddisfatto del modo in cui Unifil opera".

Qual è lo stato dei rapporti con le truppe israeliane?

"Ci sono state sgradevoli polemiche di stampa. Ma alla fine la voce ufficiale delle Forze armate ha reso pubblica la soddisfazione del modo in cui Unifil sta lavorando per la pace sul confine nord di Israele".

Avete preso provvedimenti per aumentare la sicurezza delle truppe e dei libanesi che vivono a sud del Litani?

"Ci rendiamo conto che viviamo in un ambiente complesso e il fatto che si sia combattuto a Beirut, nel nord del paese, nella valle della Bekaa ci fa tenere gli occhi più aperti. Abbiamo aumentato la presenza sul terreno e i collegamenti con le forze di sicurezza libanesi. Dall'anno scorso abbiamo rivisto il modo di operare e i risultati ci sono: solo nell'ultimo mese sono state controllati 4 mila veicoli e 5 mila persone".

Ha notato cambiamenti nel modo di operare dell'Armée libanese nell'ultima settimana?

"Continuano a fare uno sforzo gigantesco per svolgere il loro mandato, ma hanno bisogno di un consistente supporto internazionale che non è ancora arrivato".

Generale Graziano, la situazione che si è creata in Libano negli ultimi giorni è tale da far pensare alla necessità di ridiscutere

le regole di ingaggio?

"L'Italia è il solo paese nel quale si è parlato di questo problema. Ma le regole di ingaggio sono legate a un mandato che deriva da una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Il nostro si basa su tre principi: consenso, imparzialità e applicazione della forza solo per autodifesa e per la difesa del mandato ricevuto. Tutto questo avviene con il consenso delle parti, Israele, governo del Libano ed Hezbollah. Fino a quando c'è questo consenso, non c'è nulla da cambiare". A. C.

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