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Innanzitutto promuovere Gerusalemme (Traduzione dall’ebraico di Rochel Sylvetsky, versione italiana di Yehudit Weisz) Dal momento in cui Donald Trump ha promesso di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, quando era ancora un candidato, mi è stato chiesto spesso quale sarebbe stata la reazione araba e musulmana a quella mossa. Gerusalemme non ha un particolare peso sul piatto della bilancia in cui su un lato ci sono Trump e gli USA e sull’altro c’è il mondo arabo e musulmano. In realtà, il fattore più importante nelle decisioni del governo di Washington sullo spostamento dell’ambasciata è come Trump vede la questione di Gerusalemme: se lui valutasse Gerusalemme quale capitale eterna del popolo ebraico, un luogo al quale si rivolgono che molti cristiani, una città che i musulmani devono accettare come capitale di Israele che piaccia o no, e, soprattutto se non piace, allora avrebbe già spostato l’ambasciata a Gerusalemme, senza esitazioni, il giorno stesso in cui è entrato alla Casa bianca. La realtà, però, è più complessa: come un astuto uomo d’affari, Trump sa fiutare un buon affare, diffidare di un accordo ad alto indice di rischio o di uno la cui probabilità di fallimento è notevole. Ci sono chiari segnali che invece il nuovo Presidente degli Stati Uniti pensi in termini di “America First”, il che significa che gli Stati Uniti intendono rinunciare alla loro posizione di poliziotto del mondo, abbandonare la miriade di conflitti in tutto il pianeta ai loro legittimi proprietari e concentrarsi su se stessi, sui propri problemi e interessi. Con questo modo di pensare, Trump non si sente obbligato ad abbandonare posizioni assunte da coloro che lo hanno preceduto alla Casa Bianca solo perché alcuni ebrei americani e israeliani pensano che debba spostare l’ambasciata a Gerusalemme. Che fretta c'è? Ha quattro lunghi anni per rispettare quanto promesso, può benissimo decidere di aspettare prima delle elezioni per un secondo mandato, per ottenere il sostegno dei voti degli ebrei americani, che in maggioranza non hanno sostenuto la sua elezione. Ma la decisione di spostare o non spostare l’ambasciata comporta altri aspetti: come si comporterà Israele di fronte ad altre promesse presidenziali, tra cui le garanzie di sicurezza? Che cosa può essere offerto a Israele in cambio di mantenere l’ambasciata a Tel-Aviv – forse gli Stati Uniti chiuderanno un occhio sulle nuove costruzioni in Giudea e Samaria? Che tipo di immagine avrà il mondo del Presidente Trump, se lo si vedesse cedere a minacce e ricatti? Quali altre richieste potrebbero fare gli arabi e i musulmani quando vedranno che egli teme le loro minacce? Cosa penserà Putin, fedele ai suoi amici, come Assad, di un Presidente che non mantiene le proprie promesse? In che modo i musulmani americani e quelli fuori degli Stati Uniti, reagiranno al trasferimento dell’ambasciata? Sarà un motivo in più per compiere attacchi terroristici? Queste domande aggravano le preoccupazioni di Trump, che potrebbe perdere la capacità di svolgere il ruolo di onesto mediatore tra Israele e i suoi vicini, che vedono Gerusalemme come negoziabile. Per questi ultimi, lo spostamento dell’ambasciata significa rendere l’esito dei negoziati una vittoria per Israele. E’ importante notare che l’ambasciata dovrebbe essere costruita su un terreno acquistato dagli americani anni fa, come gli edifici residenziali del personale dell’ambasciata sono stati costruiti molto tempo fa e poi dati in affitto. Il terreno non si trova nella parte orientale della città, che i palestinesi reclamano come loro capitale, ma ciò non ha alcun effetto sulla loro opposizione allo spostamento dell’ambasciata nella parte occidentale della città. Ma anche noi siamo colpevoli. Bisogna dire la verità: Israele non ha fatto abbastanza per sancire il fatto che Gerusalemme è la propria capitale e per radicare questa realtà nella coscienza mondiale. Diverse prove lo testimoniano: importanti uffici governativi, tra i quali il Ministero della Difesa, si trovano a Tel Aviv. Di conseguenza, appena due settimane fa, abbiamo sentito dire al Congresso dal Segretario della Difesa designato da Trump che la capitale di Israele è Tel Aviv. Anche gli incontri con i responsabili della difesa di Israele hanno luogo a Tel Aviv, dove Israele ha speso miliardi per la costruzione del complesso del Dipartimento della Difesa, uffici non certo di poco conto. Sono altre le cose che Israele potrebbe fare per imprimere nelle menti dei propri cittadini e in quelle del mondo, il “ light motiv” di Gerusalemme quale capitale storica. Un’altra cosa che si potrebbe fare è quella di mettere grandi cartelli all’ingresso di ogni chiesa con scritto: “ Benvenuti a Gerusalemme, la capitale storica ed eterna di Israele”. Questi segnali dovrebbero apparire nel maggior numero di lingue possibili: ebraico, inglese, francese, spagnolo, russo e cinese. Si tratta di una lotta per sensibilizzare l’opinione pubblica, indicazioni che aiuteranno a determinare la legittimazione di Gerusalemme a noi, ai nostri vicini e ai chi viene a visitare il paese. Dobbiamo mettere queste persone e le organizzazioni a cui appartengono, fuori dalla sfera pubblica israeliana e dal mondo intero. E’ importante ricordare che ci sono stati politici israeliani che hanno ceduto alle pressioni e messo Gerusalemme - cosa per cui ancora oggi sstiamo pagando il prezzo di quegli errori - sul tavolo delle trattative con i nostri vicini ostili. E’ troppo aspettarsi dalle nazioni del mondo e dai loro leader, che considerino Gerusalemme come capitale di Israele se noi non facciamo tutto il possibile per stabilire la sua centralità come nostra capitale.
Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi. http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90 |
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