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Informazione Corretta Rassegna Stampa
27.10.2014 L'Europa perduta che finanzia il terrorismo contro Israele
Analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: Informazione Corretta
Data: 27 ottobre 2014
Pagina: 1
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «'Cercando l'anima dell'Europa. Una visione dal Vecchio Continente'»

L'Europa perduta che finanzia il terrorismo contro Israele
Commento di Fiamma Nirenstein

(Pubblicato originariamente in inglese: Seeking the Soul of Europe: View from the Continent)


Catherine Ashton        Federica Mogherini


Hamas conta i soldi e prepara la prossima guerra, il terreno cede sotto i piedi dei "pacifisti" che la sostengono

 

History offers no respite to countries that set aside their sense of identity in favor of a seemingly less arduous course. But nor does it assure success for the most elevated convictions in the absence of a comprehensive geopolitical strategy.(Henry Kissinger)

Io sono arrabbiata con l'Europa: perché essa è anche mia, miei sono Dante Alighieri, Giotto, Michelangelo, mio Cosimo de’ Medici che già scandagliava i mercati d'arte dei Paesi Bassi e ne portava a Firenze la magnifica pittura, mia l'Inghilterra di Chaucer e di Shakespeare, mia la "La certosa di Parma" e persino Baudelaire, e certo miei i romanzi russi, le guerre, le paci, le rivoluzioni fondamentali della storia del genere umano. Miei, e di tutti gli europei. Non capisco come un patrimonio di civiltà clamoroso come quello dell'antico continente sia stato così pesticciato dalla burocrazia da diventare inesistente di fronte ai problemi dell'Euro.

Mio padre era polacco, mia madre è fiorentina, io sono cresciuta fra Firenze e Roma e da inviata speciale ho coperto le rivoluzioni anticomuniste e ho scoperto l'implicazione antisemita di Waldheim. Fra Shoah e comunismo, ho visto l'Europa cercare di affrancarsi dai peggiori totalitarismi generati qui. Mia nonna, una bella signora ebrea di Firenze ci ha cresciuto instillandoci l'idea che i mostri erano stati vinti: avevamo perduto metà della famiglia nell'Olocausto, ma l'Europa aveva imparato la lezione. Mai più l'Europa dei miei sogni, aperta, integrata, plurilingue, avrebbe potuto pascersi di odio antisemita. Invece esso come la gramigna ha ripreso piede ovunque, e chi avrebbe pensato che avremmo visto di nuovo manifestazioni a Berlino in cui si urla morte agli ebrei.

Oltre alla perversione dell'antisemitismo ho visto il rovesciamento dell'idea stessa di diritti umani su cui è nata l'Europa, diritto umano è diventato avere una famiglia poligamica a Parigi e proibire l'uso dell'alcool in alcuni quartieri di Londra e Bruxelles definiti ormai “quartieri shaaritici”; diritto umano è diventato il dito alzato della signora Catherine Ashton per uno sciopero della fame in un carcere israeliano mentre muoionocentinaia di migliaia di siriani e iracheni. Ho visto la stupidità di giudici europei che rilasciano terroristi che cospirano per portare a termine attentati con la ragione che direi forse “che combattevano per la libertà”, la TV che invita un terrorista dell'ISIS in dibattito a uno show di un famoso conduttore ebreo di sinistra italiano. Ho assistito alla subdola proposizione di un punto di vista antisraeliano persistente e persecutorio che si nasconde sotto formule di esaltazione della pace. Rimpiango l'Europa, mi manca.

Quando penso alla mia personale esperienza, mi vedo a Strasburgo mentre entro, intimidita ma sdoganata da un poderoso tag, nell'ingresso del Consiglio d'Europa di cui ho fatto parte per cinque anni, o nel palazzo dell'Unione a Bruxelles: edifici labirintici per addentrarsi nei quali e raggiungere una meta hai bisogno di una guida, una folla di funzionari eleganti, indaffarati, vaghi, tutti sorridenti quali che siano gli onerosi problemi del Vecchio Continente. Tanti, un'infinità, affaccendati, affabili, sempre in ritardo alle riunioni che si susseguono a ritmo forsennato nelle centinaia di stanze, uffici, aule.

I parlamentari dell'UE sono 754; fra deputati, impiegati, funzionari, fra le 14 e 15 mila persone si spostano per le plenarie, quattro giorni al mese; la Commissione Europea ha 28 commissari e circa 25 mila dipendenti; il sistema costa sui 140 miliardi di Euro l'anno, e il flusso è aumentato dal servizio diplomatico autonomo europeo dell'EEAS. Le persone che incontriamo costano stipendi che vanno dai 2300 ai 16 mila Euro mensili, più percentuali di indennizzo di trasferta. Un articolo del Daily Telegraph ha denunciato che oltre mille funzionari guadagnano di più dei loro primi ministri. Nelle riunioni ben regimentate, si parla pochi minuti a testa, se sfori di dieci secondi sei un reprobo e vieni quasi bloccato dalla polizia, si sentono opinioni dissonanti e antagoniste a seconda degli Stati, ma soprattutto delle parti politiche. L'uno vale l'altro, ma alla fine si sa che vincerà la Germania, se si degnerà di prendere la parola.

Non posso dimenticare all'UE una discussione fra gli Stati Nazioni (ero in delegazione come capo della Commissione Esteri del Parlamento italiano) sulle "primavere arabe": di tre minuti in tre minuti dovevi spiegare se avevi fiducia nello sviluppo della democrazia in Piazza Tahrir oppure no, e naturalmente ne derivava la scelta, o meno, di poderosi aiuti economici. Io scelsi la strada della condizionalità: se fanno la guerra, se velano le donne, se tagliano la mano etc l'Europa deve limitare gli aiuti. Ma il dibattito non aveva nessuna importanza. Benevoli e saputi, una schiera di funzionari inviati sul luogo delle rivoluzioni concludevano la discussione, i loro interdetti proibivano ogni obiezione: non vorrai mica mettere in discussione la loro istituzione di matrimonio, le tradizioni vanno rispettate, non vorrai aprire oggi col presidente Mursi un dibattito sulla pace in Medioriente, sarebbe scriteriato, insano. Se il presidente dell’Egitto invece minaccia Israele, è tradizione.

I fondi, gli aiuti - alla fine si trattava di soldi - l'idea stessa di una politica estera, di una morale europea, era lontana. Nel 2010, a Parigi, durante una riunione del Consiglio d’Europa, proprio nella data dell'episodio della Mavi Marmara, la flottiglia turca che voleva approdare sulle coste di Gaza, mi vidi divorata dal rappresentante turco, le cui opinioni definitive circa l'efferatezza di Israele erano ascoltate in un silenzio religioso. Un ultimo ricordo: in un'isola svedese, il ministro degli esteri di turno dell'Unione Carl Bildt, svedese a sua volta, che alla domanda su cosa intendesse fare contro l'antisemitismo (era appena uscito sull’Aftonbladet l'articolo che sosteneva che i soldati israeliani uccidevano per rubare gli organi ai palestinesi e farne commercio), rispose che non gli risultava che ne esistesse alcuno. Bildt è il tipo che ha paragonato Netanyahu a Hamas, dicendo che due identità simili possono incontrarsi e fare pace. Nessuno fiatò, come poteva l'antisemitismo esistere nella perfetta, speranzosa creazione europea, coacervo di tutti i beni? Infine un incontro col capo della commissione diritti umani del Consiglio d'Europa, che convocò gli italiani per disapprovare la politica di Berlusconi dopo una vista ai campi dove risiedevano gli zingari. Ci rimproverò per i bambini che non andavano a scuola, per le baracche che sostituivano delle normali case di mattone, indossava pantofole di panno cucite sommariamente con spago ecologico. Aleggiava su di noi l’immensa bontà della costruzione europea, mentre fuori imperversava la tempesta della realtà.

L'Europa è una creatura essenzialmente ideologica, e da questo derivano i suoi guai: mancanza di una politica economica, di una politica estera, di una politica sociale, mancanza di unità sostanziale. Ernesto Galli della Loggia, in un libro edito dalla Casa editrice italiana il Mulino, "Europa perduta?", si avventura nel ventre stesso del documento di fondazione dell'ideologia europeista quando l'europeismo era una "faccenda esclusiva di intellettuali di varia estrazione e di qualche isolato esponente politico". La necessità primaria in un'ambiente distrutto dalla seconda guerra mondiale era rispondere alla pressione sovietica, e quello che nacque all'inizio fu un mercato comune del carbone e dell'acciaio CECA per evitare le rivalità economiche. L'unione politica era molto lontana, l'idea di un esercito fallì per il rifiuto francese, ma l'ispirazione, la necessità di farsi largo fra le grandi potenze russa e americana era maggiore. Diventò una specie di vangelo europeista il famoso "Manifesto di Ventotene": lo scrissero tre reclusi al confino dal regime fascista, il socialista Eugenio Colorni, il liberal-radicale Ernesto Rossi e l'ex comunista Altiero Spinelli. Questo "Manifesto" è un testo sacro, che tutti citano senza averlo mai letto, ma Galli della Loggia ci fa capire che là troviamo l'origine del guaio europeo: l'aspirazione è apocalittica, rivoluzionaria; lo Stato nazionale è descritto come un mostro destinato a produrre una degenerazione plutocratica nazista, saturo di puzza di "patria e suolo", quindi è necessario immaginare uno stato federale europeo che ha senso, dice il manifesto solo se si prefigge "la riforma della società", "contro le disuguaglianze e i privilegi".

Insomma, legge Galli, "la rivoluzione europea... deve essere socialista", e osserva addirittura che "la metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria". No, non è un documento dimenticato: citato continuamente da ministri e deputati, i suoi firmatari sono monumentalizzati in ogni occasione dall'Unione Europea. Forse il testo base divorato dal tempo avrebbe potuto essere messo da parte se l'Europa avesse votato una sua Costituzione, dandosi un senso politico confacente al tempo e anche alle effettive scelte dell'Unione, ma la Costituzione si è spiaggiata sul no degli elettori olandesi e francesi nel 2005. Si può dire che l'Europa invece di un'anima ha sviluppato una giurisprudenza sostituiva fatta di una quantità di norme e di ingiunzioni senza confini, culminata negli accordi di Lisbona: un testo gigantesco, enorme, illeggibile, che si occupa di tutto e dice letteralmente di voler promuovere "il buon governo mondiale". La prescrittività minuta delle leggi, dalle lampade ai latticini, è sovrastante, malata, le pagine che ne determinano le norme sono circa 150 mila, il peso della Gazzetta Ufficiale una tonnellata, e le leggi sono vincolanti per tutti gli stati membri.

Se a questo corrispondesse una direzione realistica, una scelta politica, non ci impressioneremmo: l'Europa è grande e complessa. Ma il problema è sempre lo stesso. L'anima dell'Europa dov'è? Dov'è la sua politica? Nel corso dell'ultimo lustro ha proseguito la sua marcia robotica, in cui, di fatto, non si dava sufficiente conto del perché un tale spaventoso sforzo di integrazione andava fatto, del perché si deve utilizzare una moneta unica a fronte di economie tanto diverse. Perché, di fatto, la maggiore impresa tentata è stata quella di definire un'identità economica dei Paesi membri, e anche questo non ha funzionato tanto meno via via che il numero cresceva fino ad ammettere 28 nazioni. Solo pochi appassionati vedono l'UE come un sostegno, un aiuto, una fonte identitaria, una madre come gli Stati parte degli Stati Uniti vedono il potere centrale. L'Europa ha seguitato a parlare lingue diverse, a sognare e a cantare in lingue diverse, non c'è neppure una canzone in comune. Forse, l'unica mossa positiva di integrazione reale è stato il programma scolastico Erasmus, che ha consentito ai ragazzi di trascorrere periodi studio in Paesi diversi da quello di origine: ma anche qui l'integrazione si è limitata agli anni di studio, senza poi diventare la culla di una nazione allargata.

La maggioranza degli europei ha sviluppato una sorta di insofferenza variegata a seconda del Paese dove essa si manifesta (se è in Grecia, in Italia, in Spagna, contro la Germania, considerata come un padrone sfruttatore, se è in Germania contro il peso insopportabile degli sprechi dei Paesi che le pesano addosso senza poi nemmeno esserle grati), e se si parla con la gente si scopre che la vede come un accrocco di istituzioni, leggi, carte che hanno causato un'economia fallita, anzi, il fallimento della loro propria economia nazionale. La distribuzione di sacrifici in tempo di crisi fra nazioni tanto impari ha trasformato il senso di speranza in senso di ostilità. Abbiamo visto negli ultimi venticinque anni l'Europa tentare la strada dell'integrazione mentre i Paesi membri difendono strenuamente la loro lingua, i loro cibi, la loro cultura, la loro economia. L'inno beethoveniano Europeo naturalmente è meraviglioso, ma è assurdo che un italiano o un polacco intonino l'Inno alla Gioia in tedesco. La marcia per l'unità economica percorsa in assenza del cammino ideale comune ha tentato di percorrere l'Europa, paradossalmente ha rafforzato l'identità nazionale.

L'inizio degli anni ottanta fu segnato dall'allargamento della CEE verso Sud col passaggio da 9 a 12 Paesi membri, ma questo avveniva mentre Margaret Thatcher invece difendeva fieramente il principio della sovranità nazionale. Nel 92 veniva completato il mercato internoattraverso l'abbattimento delle barriere tariffarie che era stato stabilito con L'Atto Unico del 1986. Da qui si passò dopo il distacco inglese, a un ruolo guida della Francia che con la spinta di Mitterand e il potenziamento della Commissione presieduta da Delors tornò all'idea dell'unione economica e monetaria. E' qui che la caduta del Muro di Berlino e la centralità della questione tedesca al centro della scena mettono un po’ di benzina nel motore, e il rapporto fra Kohl e Mitterand nutre la voglia di riorganizzare l'Europa, tutta l'Europa. A Roma nel 1990 si perfezionarono gli accordi per l'unione monetaria stabilendo anche che alla fine del processo si sarebbe adottata la moneta unica. Ne nacque un'Europa che si sforza dilimitare il peso dei paesi portatori di tensioni inflazionistiche e con i conti pubblici non in ordine. Vincevano i paesi come la Germania preoccupata che l'unione monetaria non andasse a scapito del potere d'acquisto della moneta. Impostazione sacrosanta, ma non ha funzionato: da qui sempre di più si è affermata soprattutto la forza della Germania. Nel '95 l'area Schengen abolì progressivamente le frontiere, ma l'Inghilterra non aderì. La Thatcher annunciò che non intendeva accettare né questa prospettiva né la moneta unica, e qui probabilmente l'azzoppamento è stato sostanziale: la potenza che aveva fondato la democrazia e il capitalismo, che aveva solcato i mari, che aveva avuto la politica estera più lungimirante e vincente, sottraeva il suo spirito a quello che sempre di più si andava configurando come il tentativo di mettere insieme interessi contrastanti. È mancato il “magic touch” inglese.

Il trattato di Maastricht si presentò come una costruzione sbilanciata che poggiava da un lato su un solido basamento dell'integrazione economica e su un complesso di politiche comunitarie, e dall'altra sull'imposizione di limitazioni della sovranità nazionale che meno impegnativi rapporti di collaborazione. Una gran confusione, tanto che poi si è arrivati a una crisi, quella odierna che ha aggravato l'instabilità economica dei Paesi più poveri.

Il trattato di Maastricht, adottato nel 1992 ed entrato in vigore l'anno successivo, cercava di allargare i poteri del parlamento europeo, di avviare una politica estera e di sicurezza comune, di avviare l'integrazione sociale. Ma su tutto si affermo soprattutto la prospettiva di unione monetaria: la debolezza della confusione fra parlamento (che rappresenta i cittadini) e Consiglio(che rappresenta gli Stati) aumentava le difficoltà.

La politica estera fu delegata al Consiglio, che invece di cercare l'interesse dell'Europa intera ha avuto il compito di mettere d'accordo gli Stati. Anche la creazione dello European External Action Service (EEAS), il corpo diplomatico europeo, doveva servire a consolidare una politica estera europea, trasformandosi invece in un altro corpo burocratico. L'accordo fra Stati si limita a determinate circostanze, soprattutto quando c'è da condannare Israele. Per il resto, non è mai riuscita veramente e già ce n'erano tutti i segni. Nel ‘91 i Paesi dell'allora CEE si associarono all'intervento militare contro l'Iraq, ma tutto il corso politico della crisi fu segnato da un atteggiamento storto, malvolente, privo di slancio politico, semmai segnato dal dubbio continuo.

L'antiamericanismo intessuto di ignoranza, invidia e di antisemitismo stava diventando uno dei principali "drive" della mente europea. Nel 2003 quando gli ormai gli allora 15 membri (oggi sono 28) dell'UE si riunirono in uno speciale incontro sulla seconda guerra in Iraq, il partito antiguerra era ormai organizzato: l'Europa si spaccò in due, con in testa la Francia da una parte e Tony Blair dall'altra.Il grande slogan: "America gendarme del mondo" era la consolidata eredità vischiosa della Guerra Fredda. Su questa scia purtroppo l'Europa ha rifiutato, dopo l'11 di settembre, di sentirsi appieno parte, nonostante i ripetuti attacchi, della guerra contro il terrorismo. Ha ritenuto di espiare il suo colonialismo con una politica di multiculturalismo mentre lasciava all'America l'odio antimperialista. I politici filoamericani come Berlusconi o Aznar e in parte anche Sarkozy sono stati azzannati dalla stampa europea, accusati di islamofobia e di razzismo contro i musulmani.

Ancora più notevole fu l'inefficacia dell'azione comune dinanzi alla crisi iugoslava che dalla metà del '91 si trovò sulle ginocchia della CEE: la Germania incoraggiava la secessione della Croazia e della Slovenia, gli altri erano più cauti e alla fine l'intervento diplomatico e militare degli USA fu decisivo.

La storia della politica estera europea è inesistente: un'entità sovrastatale che non ha idee e non ha esercito. Un esercito comune non c'è mai stato né mai ci potrà essere, dato che sembra difficile davvero che le due potenze nucleari implicate siano disposte a mettere in comune la loro arma principale. Inghilterra e Francia non ci staranno mai, e seguitano a fare politiche autonome in Libia, in Iraq, in Siria, con l’adesione episodica di questo o dell'altro Stato.

L'antiamericanismo si associava con l'antisionismo che cresceva durante la Seconda Intifada, una specie di fissazione istituzionale europea: l'Europa, secondo la disperata testimonianza di chi ci lavora, è popolata da gruppi di funzionari e di politici che si occupano solo di ottenere condanne per Israele, e che sul terreno pratico riesce a produrre a scadenze periodiche documenti che stabiliscono l’indispensabile bontà, la necessità per giungere alla pace, della condanna degli insediamenti, fino alle Guidelines del 2013 che proibiscono rapporti con istituzioni israeliane pubbliche o private nei territori oltre la Linea Verde (cioè le linee armistiziali del 1949). I "territori" sono l'unico misero punto di elaborazione su cui convergono tutti gli Stati membri, pena una cipigliosa disapprovazione generale. L'atteggiamento si fa molto concreto quando si legge che dal 2006 circa 100 ONG israeliane con un'agenda contro il governo e palestinesi hanno ricevuto più di 30 milioni di euro a cui vanno sommati i finanziamenti degli Stati Europei, delle regioni, dei comuni. Questo è il principio che contraddistingue l'UE: esportare i propri "principi" attraverso la società civile, finanziando la democrazia dal basso, ma poco importa se quella stessa società civile ha una propria agenda politica o ideologia in cui la Bruxelles rimane invischiata. Di fatto, viene del tutto ignorata la scelta per cui Israele, Paese del tutto democratico, persegue questo o quell'obiettivo, preferendo invece scegliere un’ONG che, eseguendo la politica europea, persegue invece i propri fini. La Corte dei Conti Europea ha pubblicato nel dicembre 2013 una serie di rapporti sui finanziamenti a programmi dei diritti umani in cui si critica anche il programma PEGASE di sostegno all'ANP per scarsa trasparenza, rischi di corruzione, malversazione, mancanza di condizionalità.

Maastricht pose le basi del grande problema delle politiche di immigrazione. Di fatto Francia Olanda e Inghilterra fecero da battistrada nell'aprire generosamente le porte di un continente basato sul principio della libertà di circolazione di persone, beni, capitali, sottoposto all'ondata migratoria di un mondo famelico e offeso dal colonialismo oltre che ormai sconvolto dal jihadismo omicida. La politica mutliculturale era una specie di riparazione del mal tolto durante il colonialismo. Le raggiunsero Svezia, Danimarca, Italia con permissive condizioni di asilo politico, di accoglienza dei rifugiati, di permessi di lavoro.Di fatto una politica ben intenzionata, che doveva estendere il welfare ai non cittadini, ha rovesciato su di loro la sua crisi ed è finita per concedere un'autonomia culturale incontrollata. In Svezia si fa campagna elettorale anche in arabo, a Oslo Mohammed è il nome più diffuso tra i nuovi nati, in Inghilterra ci sono le Corti Islamiche che giudicano i musulmani, all'ombra della Tour Eiffel si pratica l’infibulazione, la poligamia, il matrimonio infantile. L'odio per gli ebrei ha portato a efferati delitti come quello di Ilan Halimi, un ragazzo di Parigi rapito, torturato per giorni, ucciso in una banlieue. Gli altri attentati, li conosciamo. Il disagio culturale si è trasformato in scontro, la nuova presenza di grandi milizie che combattono in Siria e in Iraq con l'apporto di tanti giovani di seconda, terza generazione, che stanno tutti tornando in Europa con intenzioni jihadiste sarà il grande problema dei prossimi anni, e non solo un problema di polizia ma di coraggio intellettuale, che per ora manca.

I Paesi avevano interessi diversi, e neppure il trattato di Amsterdam del 1997, entrato in vigore nel 1999 che puntava su una politica migratoria di competenza europea, e riconosceva i diritti umani come parte fondamentale del sistema giuridico europeo riuscì a formare un terreno comune su cui l'Europa costruisse la sua essenza: la moneta unica è costata ai popoli europei lacrime sudore e sangue, e confusione.

Non posso dimenticare quando nei primi giorni in cui la lira era stata trasformata in Euro l'Italia si trovò con i prezzi semplicemente raddoppiati: un paio di scarpe che erano costate 100 mila lire si trovò a costare 100 Euro, l'equivalente di 200 mila lire. Ma la moneta unica ha portato dislivelli fra Paesi che erano naturalmente a livelli economici diversissimi, ha aggravato l'instabilità economica dei Paesi più poveri e deboli, ha sballato il mercato dei servizi pubblici, così enormemente diversi fra la Germania e la Grecia. Per esempio, Spagna e Irlanda dopo l'entrata nell'Euro hanno conosciuto una notevole crescita economica fra il 2005 e il 2008, per effetto della spinta artificiale all'integrazione. Poi è arrivata la botta: fra il 2004 e il 2008 l'Irlanda aveva un tasso di disoccupazione giovanile del 4,5%, si è triplicato nel 2009 ed è arrivato al 14,7% nel 2012. La Spagna aveva l'11%, diminuito di un terzo negli anni di crescita, e poi schizzato al 26% nel 2013. La Grecia, che abbiamo visto per esempio licenziare tutta l'orchestra della sua radio di stato in preda alla bancarotta, ha raddoppiato con l'introduzione delle misure del pacchetto di austerità il tasso di disoccupazione, che è arrivato al 27%. Invece la Germania ha registrato una diminuzione della disoccupazione perché la sua economia è rimasta in costante crescita, e altre economie possono prevedibilmente definirsi stabili: la Svezia, l'Austria, la Francia...

Voglio concludere affermando che, se anche paradossalmente le economie europee riuscissero e per ora non è questo il caso, a rimettersi tutte in piedi, l'Europa è ancora alla ricerca di un inno, di una memoria, di un significato che metta i suoi cittadini in giuoco per un'idea, per uno scopo, per un significato. È questo il problema principale della Comunità Europea. Insieme a quello della mancanza di una politica estera che si riflette nei suoi penosi tentennamenti dei confronti di una Russia che, invece, senza guardare in faccia a nessuno persegue una politica espansionistica nel cuore dell’Europa. Anche il mito che l’Europa abbia impedito conflitti interni è ormai sepolto per sempre.


Fiamma Nirenstein


http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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