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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
19.07.2015 Rachel, un'ebrea alla corte di Potsdam
Recensione di Giulio Busi

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 19 luglio 2015
Pagina: 36
Autore: Giulion Busi
Titolo: «Felice di essere Rachel»

Riprendiamo dal SOLE 24 ORE di oggi, 19/07/2015, a pag. 36, con il titolo "Felice di essere Rachel", la recensione di Giulio Busi.


Giulio Busi



Rachel Félix in una tela di E. Geffroy

In una sera d'estate, la recita è a lume di candela. L'attrice non ha preparato la parte, ma non ne ha bisogno. Non ha forse mandato in visibilio le corti di mezza Europa? È raro che due teste coronate siedano assieme in prima fila. II kaiser Federico Guglielmo IV e lo zar Nicola I non perdono una battuta. E se la mangiano con gli occhi, l'avvenente Rachel. Con distinzione, beninteso, come si addice a pari loro, ma pur sempre con tanto trasporto da caricare l'atmosfera di un eccitato erotismo.

Sull'Isola dei pavoni, nel parco regale di Potsdam, Rachel Félix indossa un manto dal panneggio classicheggiante, e scandisce il suo francese tornito come il marmo. Il ruolo è a un tempo moderno e antico. Delicata, scura di carnagione, dagli occhi neri e lucenti, Rachel interpreta se stessa, la bella ebrea, conturbante, misteriosa, trasgressiva. È il luglio 1852, e Federico Guglielmo IV, il padrone di casa, rimane tanto impressionato dalla grazia di Mademoiselle da commissionare una statua, teatro nel teatro, nostalgica.

Per decenni, Rachel potrà così continuare imperterrita la recita immobile nel giardino di Potsdam, fino al 1935. Ci penseranno i nazisti, scandalizzati da tanto sfacciato successo giudaico, a rimuovere simulacro e memoria. E dire che questa dominatrice dei palcoscenici ottocenteschi aveva cominciato dalla strada, nel senso letterale dell'espressione. Figlia di una coppia di ambulanti e attori girovaghi, nata per caso in Svizzera, Elisa, come si chiamava a quel tempo, si esibiva nei caffé, sciolta di parlantina, tanto brava da venir notata da un musicista francese, portata a Parigi, e spinta sulla scena teatrale a soli diciassette anni. Movenze sobrie, recitazione aulica, e soprattuto, un'acerba capacità di attrarre, di farsi ammirare e desiderare. Un successo clamoroso, che andò crescendo di pièce in pièce.


La copertina

Nella lunga galleria delle ebree concupite che va da Jessica, la figliola dello Shylock shakespeariano, e scende fino agli epistolari e ai romanzi dell'Ottocento, la giovane israelita come oggetto di desiderio incarna il doppio femminile dell'ebreo errante, stereotipo per eccellenza della diaspora. Tanto l'eterno girovagare della figura maschile è segno d'inquietudine quanto le grazie muliebri hanno la leggerezza di un quadro orientalista. Rachel, di cui ora si ristampa una biografia tedesca di intenti romanzati (Ulricke Mirjam Wilhelm, Die Theaterprinzessin), vale da sola la teatralità piena e autorevole della trasgressione.

Nell'esistenza vera, l'attrice ebbe amanti in gran numero, e tra di essi persino il futuro Napoleone Ill. Calcò insomma la vita come se fosse un palcoscenico, mentre sul palcoscenico portò l'esotismo delle proprie origini. In virtù di una labirintica legge degli opposti, l'Occidente cristiano e anti giudaico fu attratto con forza dall'ebrea seducente e moralmente disinibita. Come se dietro ogni pregiudizio e ciascuna esclusione di gruppo ci fosse una fiamma di interesse e di erotismo, una dialettica di rifiuto pronta a trasformarsi in vagheggiamento. Va detto che, mentre gli antecedenti letterari della bella ebrea ne contemplano di solito la conversione, l'abbandono dell'ebraismo da parte della seduttrice, che finisce per essere a sua volta sedotta in re theologica e lascia il milieu d'appartenenza, Rachel Félix restò ebrea sino alla fine, con un deciso attaccamento alla propria identità, a dispetto di tutte le lusinghe, delle pressioni e dei chiari inviti a rompere col passato di segregazione.

Nella sera d'estate, al lume incerto dei ceri, era andato in scena molto più che un semplice saggio di teatro improvvisato. La recita di Rachel Félix conteneva un diniego, il rifiuto di omologarsi del tutto. Rachel morì di tubercolosi, a soli 36 anni, nel gennaio 1858. Fino all'ultimo, non volle farsi cristiana.

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