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Avvenire Rassegna Stampa
02.09.2017 La politica del Vaticano verso Israele
Non è affatto rosa, come la descrive Salvatore Mazza

Testata: Avvenire
Data: 02 settembre 2017
Pagina: 2
Autore: Salvatore Mazza
Titolo: «'Fra Gerusalemme e Roma' un documento che apre a un futuro pieno di speranza»

Riprendiamo da AVVENIRE di oggi, 02/09/2017, a pag.2 con il titolo " 'Fra Gerusalemme e Roma' un documento che apre a un futuro pieno di speranza " il commento di Salvatore Mazza.

Il doppio binario della politica del Vaticano nei confronti di Israele trova conferma nel commento uscito oggi nella rubrica di Salvatore Mazza, in occasione dell'incontro con alcuni rabbini. Ne abbiamo scritto ieri http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=1&sez=120&id=67471
Non è questa la sede per una analisi approfondita sulla politica del Vaticano verso Israele, tema che però commentiamo spesso, ogni volta che leggiamo l'interpretazione che ne danno i due quotidiani cattolici.
La cronaca di Mazza è tutta sotto il segno del " va tutto bene madama la marchesa", l'intesa è perfetta e lo è stata da sempre. Viene ancora una volta citata la definizione di "fratelli maggiori", che molte critiche ha suscitato nel mondo ebraico. Si ignora, volutamente, che il riconoscimento di Israele venne dal Vaticano a denti stretti soltanto nel 1.993, 45 anni dopo la costituzione dello Stato ebraico. Tralasciamo infiniti altri aspetti per problemi di spazio. Non basta citare pace e speranza, i fatti sono lì a confutare la politica idilliaca del Vaticano. Lo è, ma nei confronti dei nemici di Israele.

Ecco l'articolo:

Porta la data del febbraio 2016, ma è stato reso noto solo all'inizio di quest'anno. E a qualcuno potrà anche sembrare strano che "Fra Gerusalemme e Roma", risposta ufficiale del mondo ebraico alla dichiarazione Nostra aetate, arrivi a oltre 50 anni dalla pubblicazione del documento conciliare che tratta dei rapporti tra la Chiesa Cattolica e le religioni non cristiane. Ma, d'altra parte, non c'è dubbio che fosse un tempo necessario, in qualche modo, perché come ha detto Papa Francesco giovedì scorso, ricevendo dalle mani di una rappresentanza di rabbini di tutto il mondo il documento, questo tempo trascorso stato indispensabile. Infatti la «progressiva attuazione» del testo conciliare «ha permesso ai nostri rapporti di diventare più amichevoli e fraterni. Nostra aerate ha messo in luce che inizi della fede cristiana si trovano già, secondo il ministero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosé e nei suoi profeti e che, essendo grande patrimonio spirituale che abbiamo in comune, va promossa fra noi la conoscenza e stima, soprattutto attraverso studi biblici e colloqui fraterni». Un cammino lungo, complesso, a tratti difficile. Però tuttavia costante, tenacemente percorso nonostante mille ostacoli e, talvolta, persistenti diffidenze e incomprensioni. Un cammino anticipato dal gesto rivoluzionario di Giovanni XXIII, che in un sabato della 1959, mentre passava sul lungotevere, fece fermare la sua macchina di fronte alla sinagoga per benedire gli ebrei che ne uscivano; e che nel viaggio di Paolo VI in Terrasanta, di cinque anni più tardi, ebbe il suo primo, irresistibile impulso Fino al 13 aprile del 1986, data che segna un vero e proprio punto di non ritorno nei rapporti tra cattolici ed ebrei: il giorno in cui Papa Wojtyla entrò, primo Pontrfice nella storia, nel tempio maggiore di Roma, accolto dal rabbino Elio Toaff. «Insieme - ricorda questi nella sua autobiografia - entrammo nel tempio. Passai in mezzo al pubblico silenzioso, in piedi, come un sogno, il Papa al mio fianco, dietro cardinali e prelati e rabbini: un corteo insolito, e certamente unico nella lunga storia della sinagoga. Salimmo sulla Tevà e ci rivolgemmo verso il pubblico. E allora scoppiò l'applauso. Un applauso lunghissimo e liberatorio, non solo per me ma per tutto il pubblico, che finalmente capì fino in fondo l'importanza di quel momento... L'applauso di nuovo scoppiò irrefrenabile quando il Papa disse: "Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire, i nostri fratelli maggiori"». Da allora quell'espressione, «fratelli maggiori», risuonata centinaia e centinaia di volte nelle parole dello stesso Wojtyla e dei suoi successori, Benedetto e Francesco, è entrata in qualche modo nel lessico comune. E quasi se n'è persa, come a volte succede, la poderosa valenza teologica e la straordinaria spinta in essa inscritta a un dialogo concreto che sia capace di esprimersi a tutti i livelli. Un'espressione alla quale, oggi, il documento "Fra Gerusalemme e Roma" risponde, in qualche modo, chiamando i cattolici «partner, stretti alleati, amici e fratelli nella ricerca comune di un mondo migliore che possa godere pace, giustizia sociale e sicurezza». E ciò per esprimere «la ferma volontà di collaborare strettamente oggi in futuro». Nel ringraziare, giovedì scorso, i suoi ospiti, Papa Bergoglio ha sottolineato come «nonostante profonde differenze teologiche cattolici ed ebrei condividono credenze comuni». «E tanto importante questo! - ha detto il Papa -. Possa l'eterno benedire e illuminare la nostra collaborazione, perché insieme possiamo accogliere e attuare sempre meglio i suoi progetti, progetti di pace e non di sventura, per un futuro pieno di speranza».

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