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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Gary Shteyngart - Mi chiamavano piccolo fallimento - 09/10/2014

Mi chiamavano piccolo fallimento
Gary Shteyngart
Traduzione di Katia Bagnoli
Guanda    euro 18

Ci aveva abituato ad essere spiazzati quasi ad ogni rigo, facendo esplodere di continuo, con fragore, pensieri e situazioni estreme. In Absurdistan, giochi di parole, colpi di scena e di stato, mitra, amori insensati, ubriachezze assolute, gangster, imbrogli, crisi d’identità guidavano Misha Vainberg, lo straripante protagonista ebreo, da una mostruosa Russia post-sovietica verso il suo unico obiettivo, l’agognata America. Storia d’amore vera e supertriste invece dipingeva gli Usa al collasso prossimi venturi, senza un vero esercito, asserviti più o meno alla Cina e allo yen, senza libri, dominati dalla disuguaglianza sociale e dai sistemi informatici dove gli iPhone sanno tutto di te e annunciano a tutti per la strada chi sei, quanti soldi e che salute hai, persino il tuo tasso discopabilità. Vulcanico Gary Shteyngart dal linguaggio generoso e eccessivo. Ma ora questo quarantaduenne, nato a Leningrado e immigrato con l’ondata dei refusnik ebrei a New York, a 7 anni, bestseller riconosciuto, cambia le carte in tavola. Ce l’aveva annunciato in un’intervista: «È tempo che scriva cosa mi è successo durante l’infanzia in Russia e America». Ed ecco Mi chiamavano piccolo fallimento, un’autobiografia senza reticenze, insieme un capitolo della letteratura d’immigrazione e un romanzo di formazione. Gary è pronto, vuole interrompere i suoi resoconti infedeli, dove «mi avvicinavo a una certa verità per poi distogliermene subito, indicarla con una risata e correre a mettermi in salvo». Quel che c’è da raccontare, con molto humor comunque — e forse troppi fuochi d’artificio, troppe parole, forzature, ripetizioni —, è l’infanzia in una Russia miserrima, con una sacra Torah che nessuno sa leggere. Gli Shteyngart però sono ebrei, è per questo che sono riusciti a venir via dall’Urss, e Gary, vero nome Igor, nel Queens frequenta persino una scuola religiosa, dove non viene capito e non capisce. Infelicità. Infelicità da bambino immigrato rotta solo quando Gary mette in campo il suo gioco migliore, quello così caro agli ebrei diasporici e non solo, ridere di sé, e lo intesse delle sue abilità narrative, coltivate ancora a Leningrado, quando sua nonna lo pagava a forza di formaggio perché lui scrivesse il suo primo libro: 100 pagine a 7 anni su Lenin compagno di avventure, niente male eh? Ora invece, nel Queens, produce un racconto che una supplente adorabile gli fa leggere a puntate in classe, un’assurdità extraterrestre che incanta i compagni. È fatta! Gli altri lo guardano come un essere umano. Seguirà una Gnorah (una Torah abitata da strani Gnu) che diventerà il divertimento più gettonato dai ragazzi. Cosa non farebbe per essere amato. Ma anche così Gary si sente estraneo: «Ci hanno invitato alla festa sbagliata» sentenzia dal romanzo, gli altri ebrei sono una comunità, mentre loro, i nuovi arrivati, sono gente che non sa niente di ebraismo (se non aver vissuto l’antisemitismo sovietico, che non è poco, diremmo noi) e devono ancora salire la scala sociale e padroneggiare la lingua. Eppure è evidente che non è così: sono arrivati alla festa giusta. Shteyngart è diventato quel che è diventato, anche se è passato dalle forche caudine della solitudine, e poi, nelle scuole secondarie scientifiche piene di cinesi e indiani col genio matematico, attraverso quelle della mediocrità. E infine ha attraversato infinite ubriachezze moleste e pericolose, grandi canne sia al liceo che all’università superalternativa dove non imparanulla, ma almeno rivede quella cosa lì, una donna nuda, cosa che non gli capitava da quando i genitori, per errore, l’avevano portato a vedere il film erotico Emmanuelle. Non solo la vede, ma la frequenta, la ama, riamato. La rabbia però continua. Dopo troppo alcol, troppo fumo, troppa aggressività e mille rapporti sbagliati, vuol capire cosa gli cova dentro, vuol riconoscere soprattutto di amare i genitori, due persone che hanno litigato tutta la vita, l’hanno picchiato qualche volta o punito col silenzio, ma dandogli ogni cosa insegnandogli anche a ridere e far ridere. Dodici anni di analisi, questo libro, e lui, mentre recita il Kaddish insieme al padre per il nonno morto nella difesa di Stalingrado, questa volta è certo di aver fatto un gran passo in avanti.

Susanna Nirenstein - La Repubblica


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