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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Yoram Kaniuk, Sazio di giorni 10/03/2014

Sazio di giorni                                                      Yoram Kaniuk
Traduzione Ofra Bannet e Raffaella Scardi
Giuntina                                                                  euro 12

Leggi Kaniuk e ti senti sgroppare ogni poche righe da un cavallo imbizzarrito, risali  in sella e cerchi di nuovo l'equilibrio senza capire bene dove ti sta portando, anzi, sei quasi certo che ha preso ancora una nuova direzione e velocemente devi ritrovare l'orientamento, il suo orizzonte libero e illuminante. Perché Yoram Kaniuk, lo scrittore israeliano scomparso nel giugno 2013, senz'altro il più anticonformista e irregolare, non si stancava mai di stupirci, e non l'ha fatto nemmeno nei  suoi ultimi libri. Se con 1948, completato solo dopo cinquant'anni di furiosi rimaneggiamenti, ha raccontato in modo definitivo e esplosivo e sincopato la Guerra d'Indipendenza che ha combattuto con entusiasmo e dolore da volontario diciassettenne, ecco ora il suo Sazio di giorni (Giuntina, trad. Ofra Bannet e Raffaella Scardi, pagg. 90, euro 12), scritto nel 2012, un libro non facilissimo, una sorta di testamento visionario di un uomo che ha sempre sfidato la vita e la fine di tutto, come fosse sull'orlo di un vulcano e volesse guardarsi mentre il corpo si incendia. Non è stato così quando ha vissuto le guerre d'Israele? O quando è andato a recuperare i sopravvissuti alla Shoah sulle coste d'Europa? O quando si dichiarava fortemente ebreo ma volle farsi scrivere sulla carta d'identità “senza religione”, perché odiava l'intreccio tra rabbinato e Stato? O molto prima,  negli anni '50, approdato a New York per dipingere senza successo e lavare i piatti, mentre frequentava i più grandi, da Hopper a Rothko, piuttosto che Billie Holiday e Charlie Parker e Marlon Brando, e stringeva una grande amicizia con Miles Davis, per poi cercare l'oro in Messico e i diamanti in Guatemala, giocare l'avventura e l'azzardo a Las Vegas? Già, ne ha viste di tutti colori, anche dopo i 10 anni americani, tornato in patria dopo il fallimento e una delle sue mille morti: i grandi libri (20 romanzi, da Adamo risorto a Postmortem a L'arabo buono e molti altri, più tanti racconti) che scrisse non trovarono l'accoglienza che avrebbero meritato perché era fuori da ogni canone della letteratura nazionale. Uno scacco, un'altra morte, che guardava con accanimento, come infine la malattia, il cancro che lentamente se l'è portato via, risorgendo però più volte, da un lungo coma, come dall'impopolarità che l'aveva avvolto, con il suo 1948,  che vinse numerosi premi conquistando il pubblico. 
Qui, in Sazio di giorni, c'è tutta la sua storia e le sue ossessioni. Il protagonista Orlov è, come è stato Kaniuk, un pittore incompreso perché non ama il contemporaneismo tanto di moda e vuol cogliere invece la realtà e la verità, finito nell'anonimato più assoluto a dipingere morti su commissione. Figlio di un nazista e di un'ebrea tedesca mandata dall'adorato marito in campo di concentramento che si risposa in Israele con un arabo e poi con un altro (il mondo è folle, gli avvenimenti sono folli, soprattutto se si fugge la crudeltà della Storia contro gli ebrei: la Germania e i palestinesi erano due questioni irrisolte sempre nella testa di Kaniuk), rendendolo di fatto orfano e tessuto di doppie identità, Orlov indaga la morte coi pennelli e i pensieri quasi fosse l'ultima cosa rimasta capace di raccontare l'umanità. Soprattutto se si è in grado, come Orlov è, di cogliere, molto meglio che in una fotografia, l'ultima luce dello sguardo, l'anima di chi non c'è più, il “quasi”, come lui lo chiama, ancora sospeso, ancora presente nei ricordi di chi ama gli scomparsi, “quasi” la voce, “quasi” i movimenti, “quasi” la vita, “quasi” l'ultimo attimo in cui si sta per perdere il proprio mondo, come Kaniuk dal suo coma e dal suo cancro aveva imparato così bene, o come Goya, ricorda Orlov, aveva saputo dipingere tanto magistralmente in 3 maggio 1808, con quell'uomo fermo davanti a una canna del fucile, il volto già contorto, la pallottola già sparata.
Una notte l'insonne e settantacinquenne Orlov, abbandonato molti anni prima e improvvisamente da una moglie che si era innamorata di un'altra donna (Kaniuk aveva una figlia omosessuale), viene chiamato da una ricca, affascinante e misteriosa vedova: vuole che ritragga subito il marito appena morto, prima che vengano “i corvi”, gli odiati religiosi. E in quelle poche ore tra loro nasce un colloquio intenso, durante cui il pittore racconta una vita stranissima e straordinaria, con ancora nuove identità (l'amore per una suora ad esempio) e situazioni al limite. Magda conosce il lavoro di Orlov, suo marito ha comprato e chiuso a chiave in una stanza tutti i suoi quadri quando ancora dipingeva la vita. Quell'uomo che ora ha davanti e sa afferrare prodigiosamente il cuore del suo congiunto, si è fatto da parte cancellando se stesso e la sua dote, lasciando tutto il posto agli altri, è stato ai margini senza lottare per il  successo e felicità: Magda lo rimprovera. Orlov-Kaniuk ha una forte teoria su tutto questo, del “fallimento”, dello stare ai margini, sempre controcorrente, ha fatto la sua arte, l'ha teorizzato. Si sentiva un perdente anche quando non lo era: stando “fuori” si può scrivere temerariamente, si può criticare tutto e tutti, senza compiacere nessuno, diceva, si ha la forza di essere se stessi e di pensare l'impensabile: gli sembrava quasi che fosse iscritto nel destino degli ebrei. Non era sicuro che ci fosse un riscatto: ma invece c'è stato, tanto in Sazio di giorni quanto nella sua vita.

Susanna Nirenstein
La Repubblica


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