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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Zeruya Shalev, Quel che resta della vita 21/10/2013

Quel che resta della vita                        Zeruya Shalev
Traduzione di Elena Loewenthal
 Feltrinelli                                                       euro 17


Magari imperfetto, diseguale negli sbalzi di una fervida inventiva, l’ultimo romanzo di Zeruya Shalev, Quel che resta della vita, merita tuttavia di essere letto e testimonia la ricchezza straordinaria della letteratura israeliana, specie della narrativa susseguente al riconoscimento della triade Grossman-Oz-Yehoshua che l’ha resa di senso comune. Nata nel 1959 e residente a Gerusalemme, Shalev ha avuto una formazione laica ed è una delle ultime kibbutzim; scrittrice poligrafa, firmataria di volumi saggistici e di poesie liriche, la sua produzione è caratterizzata tanto dalla introspezione psicologica quanto dal continuo sondaggio di asperrime tensioni sentimentali, come sanno i lettori italiani di Una relazione intima (2000), Una storia coniugale (2001) e Dopo l’abbandono (2007), tutti editi da Frassinelli. Ora, con Quel che resta della vita , Shalev alza la posta e articola la materia più sua (educazione sentimentale, conflitto sessuale, individuazione psicologica) devolvendola a un romanzo che via via prende la forma di una saga familiare. Tre donne ne sono gli epicentri emotivi e tre sono le voci che si intrecciano monologando: Hemda Horowitz, l’ottantenne che sta congedandosi dall’esistenza consapevole di aver vissuto sempre «troppo presto o troppo tardi», lei che è un’orfana educata nel kibbutz dei pionieri, una donna male amata e solo all’ultimo redenta, cioè disposta finalmente ad amare in punto di morte; sua figlia Dina, che è la vera protagonista del romanzo, a sua volta deprivata dell’amore materno e dunque torturata da un desiderio spasmodico di maternità, di cura e protezione nonostante risultino per lei postdatate o comunque ipotecate dalla consapevolezza di non essere riuscita ad essere compiutamente né una figlia né una madre; infine Nitzan, figlia unica di Dina, la ragazza che vive tutte le tensioni e le incertezze della adolescenza nel viavai, postmoderno e globalizzato, della Gerusalemme di oggi. Da questo che già potrebbe dirsi un triplice e concentrico romanzo di formazione, si diramano e rientrano i percorsi come le derive esistenziali di alcuni uomini la cui caratteristica costante è tanto la attrazione quanto la soggezione al femminile, ora nei modi distaccati e dolcemente perplessi di Ghideon, il marito di Dina, ora invece in quelli remissivi e in sostanza soccombenti di Avner, il fratello di lei. Romanzo di interni, di torride penombre rivissute in soggettiva nella limpidissima versione di Elena Loewenthal, Quel che resta della vita è meno convincente, vale a dire più scontato e talora inutilmente didascalico, nelle zone all’aperto dove si profila l’attualità politico-sociale di Israele. La sua forza, viceversa, sta proprio nella intemperanza di profili umani sempre sovraesposti ed invasivi, sempre ai limiti di un mélo che può anche ricordare, in taluni frangenti, gli spasmi convulsivi di un Tennessee Williams o i neri diagrammi psicologici di un Douglas Sirk. La voce fuori campo della narratrice, a un certo punto, si sorprende a dire: «L’ha già sentita questa storia e più di una volta, che succede nella loro famiglia? Si siedono intorno al falò dell’amore e non fanno altro che misurare l’altezza delle fiamme, che strana tortura passa da loro di generazione in generazione». Nella cenere di quel grande falò si disegna infatti l’oroscopo di «Quel che resta della vita».

Massimo Raffaeli
La Stampa


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