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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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S.Yizhar, Convoglio di mezzanotte 29/04/2013

Convoglio di mezzanotte                        S.Yizhar
Traduzione di Elena Loewenthal
Elliot                                                            Euro 16

Nessuno più di S.Yizhar ha cantato la terra di Israele, tutti i toni del verde, dell'arancione, della sabbia. Eccolo due righe dopo l'incipit di questo Convoglio di mezzanotte, nel mezzo del deserto del Negev: “di colpo tutto si avvolgeva di grigio e veniva murato dentro una sfera torbida di vortici polverosi e accecanti che avrebbero portato all'asfissia, anche se a tratti, all'ultimo momento, il vento s'allentava appena e s'accaniva su una spirale di polvere che turbinava dietro, s'agitava e disperdeva quelle spesse cortine, rivoltava e strappava, lacerava e disperdeva con furia sul ciglio della strada e giù in fondo ai campi che non avrebbero potuto essere più pallidi di com'erano, stoppie e erbe secche d'estate, il cocomero asinino invasivo come il prosopis nano, la campanula storta, il cartamo e il cardo grigio, tutto era ormai zolle grandi e briciole”. “C'è un po' di Yizhar in ogni scrittore venuto dopo di lui. Per tutti noi è il punto di partenza” ha detto Amos Oz. Ed è vero. Quanti dei sogni e dei dubbi espliciti o non detti dei suoi racconti, quanto delle sue domande scomode, quanto del suo insistere su un paesaggio desiderato, posseduto, ancora brulicante di insidie (non può non venire in mente il vagare tra mille piante e ruscelli e uccelli nominati uno ad uno dai protagonisti di A un cerbiatto somiglia il mio amore di Grossman), quanto di questa lingua nuova sfogliata, assaporata, gustata come la primizia di un frutto primordiale c'è in tutti i grandi scrittori israeliani. Prima di lui, prima di S.Yizhar, non c'era nulla, certo, c'era il grande Agnon e gli altri geniali e determinati pionieri della lingua, ma erano tutti venuti da fuori, nessuno era nato e cresciuto con l'ebraico riforgiato. Nessuno l'aveva accarezzato, succhiato come il latte materno, nessuno l'aveva avuto come compagno di giochi. Qualcuno ha scritto che nelle lettere l'unico rivale di Yizhar potrebbe essere il profeta Geremia, o l'autore dell'Ecclesiaste...
E questo lungo racconto pubblicato ora da Elliot (trad. Elena Loewenthal, pagg. 149, euro 16) ha veramente un respiro universale, anche se parla di una notte, di una sola notte. Samekh Yizhar (ma il suo nome vero era Yizhar Smilansky) era nato nel 1916 a Rehovot, nella Palestina ottomana in un moshav, in una famiglia di sionisti, e lui stesso era appassionatamente sionista, di sinistra, soldato nella guerra d'Indipendenza, deputato per un ventennio nella Knesset per il Mapai (il partito di Ben Gurion) e poi scomparso nel 2006. Uomo combattuto, tanto patriottico quanto critico sui rapporti tra Israele e i palestinesi (in Italia nel 2005 uscì La rabbia del vento che guardava impotente e dolente la cacciata  degli arabi da un villaggio durante la guerra del '48, e comunque Yizhar è sempre stato per la restituzione dei territori conquistati nel '67) - ma questa è Israele, non c'è fatto che non venga dibattuto all'arma bianca, e se qualcuno allora dette a Yizhar del traditore, quello stesso romanzo fu adottato per anni come libro di testo nelle scuole - , uomo multiforme, Yizhar ci offre questa volta un quadro claustrofobico e corale che si svolge nel '48, tutto intorno a una collina di deserto che un convoglio di camionette e carri pesanti deve superare e discendere per portare rifornimenti vitali a un villaggio ebraico assediato, varcando l'invisibile linea del nemico prima che questo se ne accorga, prima nel tramonto, poi nel buio, nel buio più assoluto, nel silenzio.
Il racconto è un filo di rasoio sospeso nel vuoto. Anche troppo. Yizhar ci chiede molto. Non c'è uno scontro, c'è solo l'arrancare della prima jeep e dei suoi cinque uomini scout su salite e discese che sembrano infinite ma non lo sono per individuare e poi preparare il terreno vergine e scosceso a un attraversamento tanto difficoltoso, preparare le zolle e segnalare il percorso con qualsiasi cosa di chiaro si possa reperire, una striscetta di carta bianca, i sassi più chiari, un fazzoletto. E poi l'arrivo dopo ore, nel buio, sempre nel buio più nero, finalmente, del rombo delle altre squadre, di un cingolato, dei camion, viveri, vestiti, armi per i “fratelli” rimasti in trappola. “Tutto stava cominciando”. Gruppi di soldati iniziano a scendere e a segnalare la strada, qualcuno deve rimanere da solo nel buio e nel silenzio, non vuole, uomini semplici, nessun spaccone, attraversati dalle loro dinamiche, dai loro pensieri, la certezza di saltare su una mina per esempio, l'ammirazione per un capo, la paura, la voglia di credere in Dio, un gesto scaramantico, l'attrazione per una marconista che fa il suo lavoro in mezzo agli altri, nel buio, un'attrazione che in quelle interminabili ore d'attesa diventa quasi un'ossessione, come un inno alla vita e all'amore contro la realtà dei fatti. Tutti si chiedono solo se ce la faranno, se non saranno scoperti, se non saranno colpiti. C'è solo polvere e il suo mulinare, e la certezza di fare qualcosa di importante, di così importante “che a parole non si può dire”, ma anche la consapevolezza che “con i convogli non si conquistano territori, non si fa la pace. Bisogna morire, e morire ancora... Ora si trattava di cominciare una guerra”. Sì, Yizhar è anche questo, un combattente nella notte.          

Susanna Nirenstein
La Repubblica


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