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Mordechai Kedar
L'Islam dall'interno
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Uno stato senza musulmani 18/05/2013

Uno stato senza musulmani
Commento di Mordechai Kedar

(Traduzione dall'ebraico di Sally Zahav, Giovanni Quer)



Mordechai Kedar


Ma non il Giappone

Nel mondo e specialmente in Europa ci sono Paesi che stanno attraversando cambiamenti culturali radicali dovuti all'immigrazione islamica.
Francia, Germania, Belgio e Paesi Bassi sono esempi di destinazione dell'immigrazione islamica, dove si sono insediate comunità che grazie al tasso di crescita elevato stanno influenzando tutti i settori sociali.
C'è però un Paese la cui posizione ufficiale sulla questione islamica è radicalmente differente: il Giappone.
I politici arabi non muovono pressoché alcuna critica al Giappone, e così i giapponesi non si esprimono sui Paesi islamici. Le relazioni tra il Giappone e i Paesi islamici sono basate su interessi ben definiti, che hanno a che fare con il petrolio e il gas, che il Giappone importa dagli Stati islamici.
La politica ufficiale giapponese è di non concedere la cittadinanza agli immigrati musulmani e di concedere raramente permessi di soggiorno permanenti.
Il Giappone vieta il proselitismo (in arabo, da'wah), considerato un tentativo di diffusione di una cultura straniera e non benvista. Poche università insegnano l'arabo. È anche difficile importare stampe del Corano, e gli immigrati di religione islamica sono di solito dipendenti di imprese straniere. In Giappone ci sono pochissime moschee.
In generale, la politica immigratoria è di non permettere l'entrata nel Paese ai musulmani, anche se sono medici, ingegneri o manager inviati da imprese straniere presenti sul territorio.
La società giapponese si aspetta che i musulmani residenti in Giappone preghino in casa. Le imprese giapponesi intenzionate ad impiegare stranieri specificano nelle offerte di lavoro che non sono interessate a candidati musulmani. Un musulmano che arriva in Giappone incontra serie difficoltà nella ricerca di una casa, e quelli che riescono ad affittare un alloggio sono solitamente oggetto di un invadente controllo sociale da parte dei vicini.
Il Giappone proibisce inoltre la formazione di organizzazioni islamiche, e la costituzione di una moschea o di una scuola islamica è quasi impossibile: a Tokyo c'è un solo imam.
Al contrario di quanto accade in Europa, ben pochi giapponesi sono attratti dall'Islam. Una ragazza giapponese che si sposa con un musulmano è allontanata dalla famiglia e emarginata dalla società.
In Giappone non si applica in alcun modo la shari'a, la legge islamica; si può trovare cibo " halal ", cioè conforme alle norme alimentari islamiche, benché sia difficile trovarlo nei supermercati.

Le relazioni coi musulmani in Giappone si possono esprimere significativamente anche in numeri:
in Giappone ci sono 127 milioni di abitanti, ma solo una minima percentuale di musulmani, che ammonta a qualche decina di migliaia; inoltre sono pochissimi i casi di conversione all'Islam dei giapponesi.
Ci sono immigrati musulmani che lavorano in Giappone, perlopiù pachistani, che sono riusciti ad ottenere un visto di lavoro come dipendenti di imprese edili, ma mantengono un profilo molto basso per l'atteggiamento ostile della società giapponese nei confronti dell'Islam.

 L'ostilità verso l'Islam in Giappone ha diverse alcune ragioni:
I giapponesi tendono a generalizzare le considerazioni sull'Islam, considerando i musulmani dei fondamentalisti che non riescono a liberarsi dalle visioni tradizionaliste e adottare sistemi di vita moderni.
L'Islam in Giappone è considerato una religione sospetta, da cui tenersi alla lontana. La maggior parte dei giapponesi non ha affiliazione religiosa, benché i membri delle alte sfere del paese si conformino a pratiche religiose scintoiste e buddiste.
In Giappone, la religione è legata ai principi nazionali, con dei pregiudizi sugli stranieri, in particolare cinesi, coreani, malaysiani, indonesiani e in fondo anche sugli occidentali. Alcuni definiscono questo atteggiamento una "consapevolezza nazionale sviluppata", mentre altri lo considerano una forma di razzismo—in entrambi i casi non ci si sbaglia di molto.
I giapponesi non riconoscono il monoteismo né la fede in una divinità astratta, forse perché il loro mondo di idee è legato alla materia, non alle credenze e ai sentimenti.
Sembra anche che associno il giudaismo all'Islam.
Il Cristianesimo, per contro, non è percepito negativamente, probabilmente per l'immagine di Gesù che è considerata allo stesso modo dell'immagine di Buddha. Ciò che è ancora più interessante è il fatto che i giapponesi non ritengono di doversi scusare per le relazioni negative con l'Islam.
Riescono a distinguere molto bene tra gli interessi economici legati al petrolio, che costringe il Giappone a relazioni amichevoli con i Paesi musulmani, e i principi nazionali giapponesi che considerano l'Islam adatto ad altri Paesi e che quindi deve rimanere fuori dal Giappone.
Il temperamento mite dei giapponesi, la serenità e la tranquillità che mostrano agli stranieri, fanno sì che si adotti un atteggiamento cortese e rispettoso verso di loro. Un diplomatico giapponese non alzerà mai la voce, e non parlerà mai chiaramente della presenza di stranieri, guadagnandosi il rispetto internazionale, benché siano razzisti e nonostante discriminino gli immigrati musulmani.
Ciò che rende il Giappone un paese quasi senza presenza islamica è il fatto che l'ostilità verso l'Islam è comune a tutta la popolazione, dall'uomo di strada alle associazioni, dalle imprese fino alle élite.
In Giappone non ci sono, come in altri Paesi, organizzazioni per i "diritti umani" che operano come agenzie di supporto ai musulmani contro la posizione del governo.
In Giappone non ci sono organizzazioni malavitose che trafficano in clandestini illegali per guadagnare qualche yen, e non c'è quasi nessuno che dia aiuto legale agli immigrati musulmani per far avere loro il permesso di soggiorno, la residenza o la cittadinanza.

 Un altro elemento che previene l'immigrazione islamica in Giappone è l'atteggiamento dei giapponesi nei confronti dei lavoratori stranieri, che non sono bene accetti perché rubano il lavoro ai giapponesi.
Un datore di lavoro giapponese si sente in dovere di assumere giapponesi anche se questo gli viene a costare di più. Inoltre, il rapporto tradizionale tra datore di lavoro e impiegato è molto più forte che in Occidente, poiché entrambi si sentono legati l'uno all'altro: il datore sente che deve dare di che vivere al lavoratore, e il lavoratore sente che deve presentare al proprio capo i frutti del proprio lavoro—il che allontana potenziali impiegati stranieri con bassa motivazione al lavoro.
Il consenso sociale e politico contro l'immigrazione islamica ha creato una cortina di ferro attorno al Giappone che i musulmani non riescono a valicare e che previene qualsiasi critica internazionale, poiché nessuno in Giappone si convincerebbe ad aprire le porte del paese all'immigrazione islamica.

 Il Giappone dà un insegnamento importante al mondo: c'è un legame diretto tra la coscienza nazionale e la politica immigratoria. Un popolo con un'identità nazionale e culturale ben definita non permette l'ingresso a tutti i disoccupati del mondo; allo stesso modo un popolo con un'identità nazionale e culturale debole non ha mezzi di difesa contro l'invasione di una cultura straniera nel proprio paese.

Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi.
Link:
http://eightstatesolution.com/
http://mordechaikedar.com/


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