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Ugo Volli
Cartoline
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Con amici così, che bisogno ha Israele di nemici? 16/05/2017
Con amici così, che bisogno ha Israele di nemici?
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli

A destra: Benjamin Netanyahu con Donald Trump

Cari amici,

felice quel paese che non ha bisogno di eroi, diceva Bertolt Brecht. E felice quello che non attraversa “momenti storici”, aggiungo io, ma vive tranquillamente occupandosi di cultura e di religione, di scienza e di sport, o quel che volete, ma non ha bisogno di pensare alla sua sopravvivenza. Purtroppo Israele ha ancora quotidianamente bisogno di eroi, militari e poliziotti che rischiano letteralmente la vita per difendere la gente comune. E ha anche la sfortuna di dover attraversare spesso “momenti storici” con le conseguenti “scelte decisive”.

Questo è purtroppo uno di tali momenti. La visita di Trump che avverrà la settimana prossima è per l’appunto definita “storica” (https://unitedwithisrael.org/watch-trumps-national-security-adviser-explains-core-objectives-for-truly-historic-visit/). Certamente c’è una buona ragione (che è anche una ragione buona) per questo carattere “storico” della prima visita all’estero del nuovo presidente americano. Otto anni fa anche Obama dedicò al Medio Oriente il suo primo viaggio significativo all’estero, ma andò al Cairo, in Arabia, in Turchia, saltando ostentatamente Israele. Trump va anche lui in Arabia, in Israele e poi in Italia per il G7, mettendo in fila probabilmente per caso i paesi dove hanno la sede più eminente le tre religioni monoteistiche: l’inclusione di Gerusalemme nell’itinerario dice da sola la differenza fra fra il filoislamista e antisraeliano Obama e Trump. Ma purtroppo la storia non finisce qui.

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Trump era partito ben deciso a “pensare fuori dalla gabbia” sul Medio Oriente, ad appoggiare Israele, a non genuflettersi ai soliti idoli dei due stati e della “trattativa” che avrebbe dovuto realizzare la “pace”. Aveva promesso di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme, attuando finalmente una legge votata dal Congresso una ventina d’anni fa e sempre elusa dai suoi predecessori. Sembrava capire quel che vede ogni osservatore non prevenuto: che il conflitto arabo-israeliano è di fatto finito, resta aperto nel cuore delle masse che sono state imbottite di propaganda per un secolo e purtroppo ancora lo sono, ma non nei giochi veri della politica. Resta il conflitto palestino-israeliano, anch’esso alimentato dalla propaganda, ma soprattutto dall’interesse di un gruppo dominante che si è formato nel terrorismo e non vede altro scopo per sé e per il popolo che amministra se non la “lotta” possibilmente “armata”, anche grazie ai massicci investimenti che gli antisemiti fanno su chiunque cerchi di eliminare gli ebrei. La pace con loro quindi oggi non è possibile e non lo sarà finché non emergerà un gruppo dirigente disposto a vivere definitivamente a fianco di uno stato ebraico. Abbas infine non è un interlocutore perché è lui stesso un organizzatore, un apolgeta, un datore di lavoro di terroristi; inoltre non conta nulla come hanno dimostrato anche le ultime elezioni comunali (http://www.jewishpress.com/news/eye-on-palestine/despite-hamas-boycott-fatah-loses-municipal-elections-in-the-pa/2017/05/15/) di cui vi ho parlato ieri.

Purtroppo però anche il roccioso presidente americano può essere “scavato” dalla goccia ripetuta dei consigli che riceve dal suo ambiente. Quel che esattamente è accaduto in questo caso. Da un lato c’è stata la pressione del Dipartimento di Stato, il ministero degli esteri americano, che è antisraeliano dai tempi della fondazione dello stato e probabilmente antisemita da prima, imbottito per di più da funzionari di nomina obamiana, che pensano con la massima sincerità che la cosa migliore da fare di fronte all’Islam è arrendesi e quindi non sopportano chi come Israele si ostina a sopravvivere. Dall’altro c’è stata la pressione degli ebrei americani, ormai in buona parte in rottura con Israele, che temono moltissimo di essere identificati con i loro litigiosi cugini (http://www.jpost.com/Opinion/Column-One-The-PLOs-most-powerful-lobbyists-490525). Capeggiati questi, a quel che si è capito, dal presidente del World Jewish Congress, una volta allineato con Netanyahu, ma ora, a quanto pare tutto impegnato a convincere il suo vecchio amico Trump che è meglio fidarsi di Abbas che del primo ministro israeliano (https://www.algemeiner.com/2017/05/14/ronald-lauder-promoting-abbas-as-respectable-moderate-is-fraught-with-danger/). Naturalmente Abbas ci marcia e si presenta all’amministrazione Trump e al mondo come quel che assolutamente non è, un leader disposto a fare la pace (http://www.jpost.com/Arab-Israeli-Conflict/Abbas-has-decided-to-sign-peace-deal-with-Israel-490530). Il risultato è che non solo sembra che lo spostamento dell’ambasciata non si farà più (http://www.tabletmag.com/scroll/234125/tillerson-signals-trump-wont-be-moving-the-u-s-embassy-to-jerusalem-anytime-soon), ma che il problema principale per il governo israeliano sia di respingere la politica di stile Obama suggerita da Lauder (http://www.jpost.com/Opinion/Candidly-Speaking-Lauder-promoting-Abbas-as-moderate-is-fraught-with-danger-490630). E’ probabile che la grande esperienza e il grande istinto politico di Netanyahu aiutino Israele a superare anche questo ostacolo, tant’è vero che la perenne maretta della politica israeliana sembra essersi per un momento calmata: perché l’occasione è davvero importante e il rischio è notevole, nel dilemma che sembrava finito con Obama se fosse peggio accettare obtorto collo concessioni pericolosissimo alle forze del terrorismo, o mettersi in rotta di collisione con il presidente americano. Ma, come si usa dire, con amici come i politici “filoisraeliani” dell’associazionismo ebraico americano, che bisogno ha Israele di nemici?

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