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Luciano Tas
Le storie raccontate
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Le leggi razziali e gli ebrei cacciati dall'esercito italiano 04/12/2009

Nulla è più inedito della carta stampata, diceva un grande giornalista come Mario Missiroli. Figuriamoci se questo non è vero quando quella carta stampata è dei libri.
Me n'è capitato uno tra le mani che non conoscevo e di cui ignoravo ogni notizia. Il titolo non è tale da scatenare di per sé entusiasmo o frenetica curiosità: “I militari di origine ebraica nel primo secolo di vita dello Stato italiano”, autore Alberto Rovighi ed editore lo “Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio storico”. Il libro reca la data del 1999 ed è quasi interamente dedicato, con grande dovizia di particolari, come nomi e grado dei militari presi in esame, agli ebrei in divisa alla vigilia delle leggi razziali del 1938.
Si è spesso parlato dei provvedimenti presi dal governo fascista tra estate e autunno del ’38, di cui si sa ormai quasi tutto. La cacciata di studenti e docenti ebrei da tutte le scuole del Regno di ordine e grado, da tutti i posti pubblici e para-pubblici, dalle banche, dalle assicurazioni, per poi giungere un po’ alla volta al ritiro di tutte le licenze, dal commercio all’artigianato, al divieto di possedere terra che non fosse quella limitata ai vasi di fiori. E poi requisizione delle fabbriche che occupassero oltre un certo limitato numero di lavoratori, divieto di avere alle proprie dipendenze personale “ariano”, di avere il proprio nome sull’elenco del telefono o tenere la radio, di frequentare luoghi di villeggiatura o termali, e così via.
Poco si sapeva però di quello che succedeva nelle forze armate. Anzi, la propaganda fascista che dipingeva gli ebrei come persone particolarmente vili e infide, aveva finito per far credere agli stessi ebrei che ben pochi tra loro potevano contarsi nel 1938 in servizio attivo o in congedo nell’Esercito, in Marina, nell’Aviazione, persino nella MVSN (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale), vero e proprio esercito fascista “parallelo”.
No, nessuno credeva alle virtù guerriere degli ebrei, non ci credeva l’ignoto autore livornese di un libretto molto spiritoso ma antisemita, “La Riboluzzione” (dove s’immagina che gli ebrei livornesi, considerati tra l’altro anche pavidi sbruffoni, stessero preparando una rivoluzione, cioè una “riboluzzione” nella parlata dialettale ebraico-livornese), non ci credevano nemmeno i pietosi ma taciturni filosemiti.
Ma qui cominciano le sorprese del libro di Alberto Rovighi, il quale scrive che gli ufficiali ebrei (e qui si parla solo di ufficiali) dell’esercito italiano posti in congedo assoluto, cioè cacciati dalle Forze Armate, ammontavano nel 1938 a 3057 (ricordiamo che in quell’anno il censimento della popolazione registrava 40mila ebrei su 40 milioni di abitanti). Tra loro 81 ufficiali superiori (generali e ammiragli) erano in servizio attivo permanente, 24 generali erano in Ausiliaria o in Riserva, 2952 altri ufficiali non erano in servizio attivo.
E da credere che quei tremila ufficiali ebrei, in congedo o in servizio, ignominiosamente scaraventati fuori dai ranghi come anime appestate, avranno sentito ancora più degli ebrei licenziati dai posti di lavoro “civili” l’onta del torto subito, il dolore di una ferita inferta proprio da quella patria che avevano protetto o stavano proteggendo. E questo non si è mai ricordato, forse perché la “Patria” era già diventata una espressione retorica, da togliere al più presto dal vocabolario e dal cervello.
Nel primo anno di guerra dell’Italia, clamorosa fu la vicenda del generale del Genio Navale Umberto Pugliese (già Medaglia d’oro di prima classe per i suoi contributi scientifici relativi alla protezione delle navi da guerra). Dopo l’affondamento o il grave danneggiamento da parte di aerosiluranti inglesi di nostre navi da guerra nel porto di Taranto nella notte tra l’11 e il 12 novembre 1940, Pugliese fu pregato di tornare in servizio per collaborare al recupero di quanto fosse stato possibile salvare. Pugliese accettò e rifiutando ogni compenso chiese solo di poter operare rivestendo la sua uniforme con il suo grado, ciò che, bontà fascista, gli fu concesso. Poi Pugliese tornò nell’ombra. Riuscì rocambolescamente a salvarsi dopo l’occupazione tedesca dell’Italia. Non egualmente fortunata la sorella Gemma, deportata e uccisa ad Auschwitz.
Durante l’occupazione tedesca, registra poi Alberto Rovighi, gli ufficiali ebrei, morti nella guerra partigiana (tra questi il generale Ettore Ascoli) o deportati e uccisi furono 158. Tra loro 118 avevano combattuto nella prima guerra mondiale. Il generale di Divisione Armando Bachi, arrestato a Parma insieme al figlio il 16 ottobre 1943, fu deportato e ucciso ad Auschwitz. Il generale di Divisione Adolfo Olivetti fu arrestato a Torino nel 1944. Morì in carcere ad agosto, prima di essere deportato. Dei 246 ufficiali ebrei della MVSN ne furono deportati e uccisi undici. Ma facendo un passo indietro, è da notare un fatto del tutto ignorato e invece del tutto sorprendente. Il 26 luglio del 1943, a poche ore dalla caduta di Mussolini e dalla fine del fascismo, l’ex-ufficiale Gino Ascoli di Roma si rivolgeva al capo del governo Maresciallo Pietro Badoglio chiedendogli “a nome mio e di tutti gli ebrei italiani di religione ebraica di servire la Patria in armi”. Analoga richiesta partiva lo stesso giorno da Milano dal tenente Giuseppe Samaia. A entrambi veniva risposto in data 18 agosto che “…alla stregua delle leggi razziali tuttora in vigore manca la possibilità di dar luogo al vostro richiamo in servizio”.
Altre richieste di richiamo in servizio pervenivano a Badoglio o al ministro della Guerra Sorice da altri ufficiali ebrei: Colonnello Daniele Pescarolo (4 medaglie d’argento) di Torino, Maggiore Aldo Montefiori da Torno (Como), Tenente Giancarlo Lombroso Finzi di Roma Sottotenente Piero (dei baroni) Montel di Roma, tutti tra il 27 e il 29 luglio 1943. Il 10 agosto anche Gastone Giulio Pitigliani di Genova chiedeva di essere reintegrato nell’esercito e nel grado. A lui Sorice rispondeva il 26 agosto che si sarebbe potuto solo “se ed allorquando verrà fatta la revisione complessiva delle leggi a suo tempo emanate”, ma concludendo con maggiore gentilezza di Badoglio “spero che la possibilità di contentarti non si faccia attendere troppo”.
Ci si limitò a consentire, il 26 agosto, la reiscrizione degli ufficiali ebrei all’Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d’Italia (Archivio US-SME, M9-12). Sempre bontà loro (questa volta dei democratici).
Ma il governo Badoglio, certo pieno di ben altre preoccupazioni, si dimenticò di nascondere o sopprimere gli elenchi dei militari ebrei cacciati nel ’38, con tanto di indirizzi. Quegli elenchi contribuirono a dare una mano ai tedeschi alla loro caccia all’ebreo.
Colpisce il fatto che appena caduto Mussolini, e con lui tutto il fascismo, diversi ex-ufficiali ebrei abbiano subito chiesto di indossare di nuova la divisa e mettersi al servizio della patria. Va sottolineato che tra il 26 luglio e l’8 settembre del 1943 l’Italia di Badoglio era ancora in guerra contro gli anglo-americani. Erano dunque pronti questi ex-ufficiali a combattere contro quegli eserciti che stavano risalendo l’Italia per liberarli da anni d’infamie subite e per salvargli la vita? E’ una domanda che non è stata mai posta, ma sarebbe interessante venire a conoscenza di qualche eventuale risposta.
Quella domanda l’avrei potuta fare io, perché quando, a due anni dalla fine della guerra, avevo ricevuto la “cartolina di leva”, l’idea di servire una patria che proprio patria non mi era stata mi sembrava intollerabile. (per la cronaca: il militare ho finito per non farlo).
Per dichiarare decadute le leggi razziali sarebbe occorso non più di qualche minuto, anche perché la lungimiranza dei vincitori aveva inserito proprio quell’atto nelle clausole armistiziali, ma le risposte alle varie domande di riammissione nei ranghi erano uguali e più o meno cortesi anche nei giorni successivi al 25 luglio: purtroppo, dicevano, quelle leggi erano ancora in atto. La vergogna del paese sopravviveva alla fine del fascismo.
Quella vergogna doveva continuare fino al 1987, anno in cui una pubblicazione ad hoc edita dal Senato della Repubblica (Presidente era Spadolini) fissava proprio nel 1987 la cancellazione dell’ultima traccia, e dell’ultima conseguenza pratica, delle leggi contro gli ebrei.
Quella vergogna però non sembra abbia turbato i sogni di qualcuno.
Era stato il fascismo, e non noi che invece lo abbiamo combattuto, era stata la Germania e non l’Italia a perpetrare il Crimine. Persino la Chiesa nell’immediato dopoguerra chiedeva allo Stato l’abrogazione solo di quelle leggi razziste che toccavano la sensibilità vaticana, come il disconoscimento delle conversioni degli ebrei o il divieto di fare matrimoni misti, beninteso quelli celebrati con il rito paolino.
Non ci si può quindi stupire più di tanto nel registrare il progressivo ripresentarsi sulla scena nazionale dei semi antisemiti generosamente sparsi dal fascismo. La condanna dell’antisemitismo e degli orrori nazisti è andata via via ritualizzandosi con una progressiva crescita di tonalità: un rumore destinato a supplire alla mancanza di una vera riflessione e di un qualche pentimento.
Il meccanismo di rimozione e autoassoluzione ha così consentito di trasferire su Israele l’antisemitismo rimosso e di tacitare ogni senso di colpa. Un fenomeno piuttosto diffuso ma le cui conseguenze sulla “salute pubblica” sono tutte da studiare.


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