Bernard-Henri Lévy: Israele deve vincere Intervista di Francesca Paci
Testata: La Stampa Data: 19 settembre 2024 Pagina: 4 Autore: Francesca Paci Titolo: «Bernard-Henri Lévy 'Se Israele perde è peggio dell'Olocausto. L'accordo di pace ci sarà, ma senza Hamas'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/09/2024, a pag. 4, con il titolo "Bernard-Henri Lévy 'Se Israele perde è peggio dell'Olocausto. L'accordo di pace ci sarà, ma senza Hamas'", intervista di Francesca Paci.
Francesca Paci
Le esplosioni che a macchia d'olio si allargano da Beirut, proiettando sulla regione l'ombra di una pericolosa escalation, non sorprendono Bernard-Henri Lévy, il cui ultimo libro, "Solitudine di Israele" (La nave di Teseo), racconta il piano inclinatosi vertiginosamente dopo il 7 ottobre e l'inevitabilità per lo Stato ebraico di affrontare a «una guerra esistenziale». Il celebre filosofo francese è in partenza da New York diretto in Italia dove, da Pordenone a Milano, ripeterà la sua convinzione, il suo incubo: «Israele deve vincere o sarà peggio dell'Olocausto».
Il Libano è ammutolito, Hezbollah minaccia vendetta, Tsahal sposta le truppe al nord. Può Israele permettersi un'altra guerra e quanto conta invece la volontà del premier Benjamin Netanyahu di sopravvivere politicamente?
«È in corso una guerra dichiarata da altri contro Israele, un Paese sotto attacco su più fronti. C'è Hezbollah, ci sono le milizie in Siria e gli houthi nel mar Rosso, c'è l'Iran e c'è Hamas. Combattere questa guerra è nell'interesse di Israele».
Non ci sono grandi dubbi sulla paternità della sbalorditiva operazione libanese. Come spiega invece il fallimento d'intelligence del 7 ottobre? Israele aveva con arroganza rimosso i palestinesi al punto di trascurare i segnali?
«Non è questione di arroganza ma di cosa sia possibile prendere in considerazione e cosa no. Il pogrom del 7 ottobre è un evento impensabile, imprevedibile, imparabile. Pur disponendo di alcune informazioni nessuno in Israele avrebbe potuto credere a uno scenario del genere, neppure avendocelo sotto gli occhi, è troppo nuovo, selvaggio, troppo inutile se non per il gusto della crudeltà. È così irrazionale e disumano che si fa fatica anche a capire».
Conosce Bibi Netanyahu?
«Ho incontrato tutti i primi ministri israeliani, da Golda Meir in poi. Con alcuni, come Rabin e Peres, siamo stati amici, per altri, come Begin, ho provato rispetto pur trovandomi in disaccordo. Ho criticato Netanyahu, che conosco bene, per tutta la mia vita politica: l'ho fatto in modo molto duro durante le proteste contro la sua riforma della giustizia e lo farò di sicuro quando questa guerra sarà finita. Ma oggi no, non mentre Israele è in guerra».
«Se ti dimentico, responsabilità ebraica che ha fatto dire a un grande primo ministro ebreo: ancora più imperdonabile dell'omicidio dei figli d'Israele è costringere Israele a uccidere i figli dei suoi assassini...» scrive alla fine del suo libro paventando la perdita dell'anima ma chiosando che non siamo a quel punto. Siamo però a oltre 40 mila morti a Gaza e la Knesset è ostaggio degli estremisti. Vede ancora margini per recuperare lo spirito originario d'Israele?
«Non c'è nulla da recuperare perché quello spirito è lì, vibrante. Basta andare tra le famiglie degli ostaggi per sentirlo fisicamente, in mezzo a loro l'ho respirato come nel giugno del 1967. In Israele ci sono due correnti politiche contrastanti: la prima spinge per la normalizzazione e per fare del Paese una nazione come qualsiasi altra dimenticando i valori del giudaismo, l'altra tiene vivi i principi dei pionieri. C'è tensione, ma per ora non sono pessimista sull'anima d'Israele, lo sono invece sulla guerra esistenziale che il Paese sta affrontando e che deve vincere: se perdesse sarebbe la più grossa tragedia dall'Olocausto».
Hamas non sembra un partner con cui Israele possa negoziare alcunché, sebbene neppure l'Olp di Arafat lo fosse prima di Olso. Ma, sul fronte opposto, come potrebbe Israele dialogare senza sacrificare le colonie che, cresciute senza sosta, sono oggi dilaganti?
«Non c'è parallelismo tra Hamas e i coloni. Con Hamas non esiste accordo di sorta che non sia quello circoscritto alla liberazione degli ostaggi. E Hamas non li libererà perché sono la sua assicurazione, la più potente arma di terrore. Chi spera nel negoziato s'illude. E per quanto riguarda i coloni, li avverso. Ma credo che quando l'Autorità nazionale palestinese si sveglierà e riconoscerà come la "resistenza" di Hamas abbia avvelenato la sua gente avremo una soluzione politica in Cisgiordania, nell'ambito della quale i coloni decideranno se andarsene o restare da minoranza in uno Stato arabo».
La prospettiva due popoli per due Stati è naufragata, restano al massimo sul tavolo gli accordi di Abramo, congelati il 7 ottobre. Ma con quale partner palestinese se l'Anp, anche con la complicità d'Israele, è così screditata?
«Mi rifiuto di parlare di una soluzione politica fin quando gli ostaggi non saranno tornati a casa e Hamas non sarà stato sconfitto militarmente in modo tale che il suo mondo riconosca il disastro di quella strategia. Succederà. Anche l'Unione europea era impensabile nel 1945. La condizione però è zero compromessi con Hamas, un gruppo che equivale ad al Qaeda e va schiacciato. Gli accordi di Abramo non sono stati accantonati, restano sullo sfondo, i Paesi arabi si stanno muovendo con accortezza, consapevoli che Hamas è il peggio anche per loro».
"La solitudine d'Israele", nato per essere il rifugio degli ebrei del mondo, è la solitudine degli ebrei nel mondo?
«Di sicuro, gli ebrei sono sotto attacco negli Stati Uniti, nei campus, nelle strade. Criticare Israele è legittimo ma condannare la natura ebraica d'Israele o gli ebrei in generale è diverso. Ho ascoltato proporre l'espulsione d'Israele dalle Nazioni Unite, un'enormità senza precedenti, una misura mai evocata per l'Iran o per altre feroci dittature. Questa non è critica politica è antisemitismo».
C'è stato un tempo in cui Israele dialogava col socialismo mentre oggi ha spesso accanto amici di destra. È cambiata la sinistra o Israele?
«La sinistra è cambiata molto più d'Israele».
Israele, scrive, è diviso tra i liberali che gli somigliano e gli illiberali che lo difendono. Un buon esempio è la nuova Europa emersa dal voto di giugno, spostata a destra e con forze conservatrici che avanzano dall'Italia, alla Francia, alla Germania. Cosa si aspetta da questa Europa?
«Mi aspetto il ritorno dei liberali in Europa, l'illiberalismo non è un'opzione. E rispetto ai nuovi amici illiberali d'Israele, credo che il Paese sia in uno stato di debolezza tale da non poter rifiutare nessun aiuto. Al tempo stesso però gli suggerisco di tenere gli occhi aperti perché l'alleanza con le forze illiberali è fragile, non si basa su valori condivisi né sulla reciproca conoscenza ma sull'opportunità del momento».
È un'Europa attrezzata a fronteggiare le sfide poste dalle nuove potenze come la Russia, la Cina e l'Iran ma anche dalla prospettiva di un'America sempre più lontana?
«No, è troppo divisa per affrontare le due minacce più serie: l'America, che gradualmente ci volterà le spalle indipendentemente da chi vinca le elezioni, e l'offensiva dei nuovi attori che io definisco i 5 re e che rappresentano per l'Europa una sfida esistenziale, a cominciare dalla guerra in Ucraina»
Cosa succede se Donald Trump diventa presidente?
«È imprevedibile, lo sappiamo debole con dittatori. Non c'è nulla di buono da aspettarsi».
Come risponde ai tanti Paesi del sud che nel caso di Russia, Israele e delle violazioni del diritto internazionale parlano di due pesi e due misure ?
«Israele non viola il diritto internazionale, la Russia lo fa. Israele si difende e difende la democrazia contro il peggior fascismo del nostro tempo».
Le critiche più dure in questo senso vengono da Israele, i soldati refusenik, l'ex capo dello Shin Bet Ami Ayalon...
«C'è un dibattito interno che dimostra la vitalità della democrazia israeliana, non per questo devo essere d'accordo».
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