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Il Foglio Rassegna Stampa
31.12.2023 2024, urne roventi
Siegmund Ginzberg, nel 2024 si vota in 76 paesi

Testata: Il Foglio
Data: 31 dicembre 2023
Pagina: 6
Autore: Siegmund Ginzberg
Titolo: «2024, urne roventi»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 31/12/2023, a pag. 6, con il titolo "2024: urne Roventi" l'analisi di Siegmund Ginzberg.


Siegmund Ginzberg – 1933, l'incendio dell'Europa. Vi dice qualcosa? | I  tempi nuovi
Siegmund Ginzberg

Perché Trump rischia davvero di vincere le elezioni contro Biden: cosa  dicono i sondaggi
Trump e Biden

Quest’anno più di mezzo mondo andrà a votare, e le protagoniste saranno le coalizioni. Cosa c’è in ballo in Europa e negli Stati Uniti Walt Whitman, il grande poeta ottocentesco dell’anima dell’America (che identificava con la propria), celebrò le elezioni, con i relativi rituali, anzi “il fatto stesso di votare ogni quattro anni”, come la vera meraviglia per l’intero occidente. La poesia “Election Day, November, 1884” si riferisce a una elezione presidenziale ormai dimenticata. Era stata, pare, particolarmente cattiva. I candidati rivali si scambiavano accuse sanguinose. Il repubblicano James Blaine veniva bollato come “prostituta politica”. Il democratico Grover Cleveland veniva accusato di guidare il partito delle tre “R” (Rum, Romanismo [soggezione al cattolicesimo romano], Ribellione). Si accapigliavano su stupidaggini. Anziché sui grandi problemi. Esattamente come succede oggi. Fa parte del gioco. Ma diventa patologico quando chi governa fa campagna elettorale permanente. Finì che gli elettori, disgustati, si astennero in proporzioni record dalle urne. Tra gli astenuti, lo stesso Whitman. “Non ho votato”, avrebbe poi confessato. Un appunto privato, che precede di pochi giorni quelle elezioni, spiega perché: “I partiti tentano – per lo più invano – di creare qualche fervore o eccitazione sulle prossime elezioni presidenziali. Si vota questo martedì. Non c’è sul tappeto niente che abbia qualche importanza. Non riesco a entusiasmarmi per niente. 30 o 20 anni fa sì che c’era qualcosa su cui entusiasmarsi [Whitman era stato grande ammiratore di Lincoln]”. “Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono grande, contengo moltitudini…”, l’altro famosissimo verso di “Foglie d’erba”, che sembra cucito su misura per la complessità dei fenomeni elettorali. Nel 2024 si vota in 76 Paesi. Andranno alle urne 4,1 miliardi di persone, oltre metà della popolazione mondiale. Andassero a votare anche i cinesi, si sfiorerebbero i due terzi. In Cina non si vota, si fanno solo congressi del Partito unico. Ma a Taiwan sì, si vota a gennaio, e dall’esito potrebbero dipendere guerra o pace. Secondo l’Economist le elezioni saranno libere in 43 di questi 76 paesi. Ciascuno vota con un sistema diverso. Ci sono due partiti, o tre, o molti, raccolti in coalizioni o in formazione sparsa. Ma nelle elezioni più importanti il partito che vince potrebbe essere uno non dichiarato: il partito di chi, disgustato, deluso, disinteressato, o semplicemente incerto, a votare non ci va. Si sente dire che un po’ dappertutto soffi un vento populista, di destra, conservatore. Un vento da anni 30 del secolo scorso, dice qualcuno. Da Germania di Weimar, pre Hitler. Le elezioni non sono tutte uguali. Ci sono elezioni vere, da trattenere il fiato sino all’ultimo. Ed elezioni di cui si sa già come andrà a finire, prima ancora che inizi la campagna elettorale. Tra le elezioni vere, le più importanti di tutte sono le presidenziali americane del prossimo novembre, e le europee, che si terranno probabilmente a giugno. Tra quelle il cui esito è scontato ci sono le elezioni per la presidenza russa del prossimo 17 marzo. Il vincitore è preannunciato: Vladimir Putin. Sarà rieletto con oltre il 90 per cento dei suffragi: parola del suo portavoce Dmitri Peskov. C’è da credergli. I possibili rivali non esistono, sono in galera come Alexei Navalny, o sono già stati ammazzati. Non è chiaro se si voterà, si fa per dire, anche in Bielorussia, dove Lukashenko è al potere da 30 anni. In teoria si sarebbe dovuto votare attorno a marzo anche in Ucraina. Ma è difficile votare, e più difficile ancora mantenere la democrazia in un paese in guerra. La moglie di Zelensky ha già messo le mani avanti: se si votasse non è detto che suo marito voglia ripresentarsi. Ci sono già segni di frantumazione politica, di repressione dei “traditori”, ci sono segnali di insofferenza in mezzo ai servizi e ai militari, spuntano e si affilano coltelli avvelenati. La vittoria di Putin potrebbe consistere proprio in questo: nell’aver reso l’Ucraina non più tanto democratica, insomma più simile alla sua Russia che al resto dell’Europa. In Polonia si è votato, e la coalizione del progressista ed europeista Tusk ha scalzato la destra ultra sovranista, nazionalista e beghina. Orbán ha difficoltà col suo progetto di alleanza su scala europea di tutte le destre sovraniste e illiberali. In India, la democrazia più popolosa del mondo, si vota a scaglioni. Nei primi stati dove si è votato, i più importanti, ha rivinto alla grande il nazionalista indù Modi. Malgrado l’opposizione fosse riuscita stavolta a mettere assieme un’ampia coalizione, guidata dal partito del Congresso (la dinastia politica Nehru-Gandhi). In Olanda ha vinto la destra, ma non è chiaro se riusciranno a fare il governo. L’ultrà Geert Wilders ha tempo sino a febbraio per mettere insieme una maggioranza che lo sostenga. In Gran Bretagna si dà per probabile la vittoria dei laburisti di Keir Starmer, tanto hanno governato male i conservatori. In Spagna si è votato quattro volte negli ultimi due anni, senza riuscire a trovare una maggioranza. Ci sta riprovando il socialista Sánchez con gli indipendentisti catalani. In Israele si è votato e rivotato ben cinque volte, con Netanyahu morto e risorto. Potrebbero dover rivotare anche loro nel 2024. Guerra permettendo. Anche lì in fondo è un problema di coalizioni. Per le europee resta tutto da vedere. Improbabile la spuntino da sole destra o sinistra. Dovrà esserci comunque una soluzione politica, concordata tra forze diverse. Insomma la costruzione di una coalizione. La soluzione Von der Leyen aveva messo insieme socialisti e popolari. Resta da vedere se dopo le elezioni sarà possibile una nuova soluzione di compromesso, il bis di quella attuale, o una di “unità europea”, allargata ancora più a parti della destra. La più grande incognita sono gli Stati Uniti. Il mondo intero è appeso a quel che succederà il 5 novembre 2024. Putin e Netanyahu accendono un cero perché vinca Trump, o uno come lui. E intanto la tirano in lungo. L’Europa trattiene il respiro. E il resto del mondo pure, perché per un’eventuale prossima sua presidenza Trump ha già preannunciato raffiche di protezionismo tariffario, rinnegamento di tutti gli impegni su clima e transizione energetica, e linea ancora più dura sull’immigrazione. In America si vota sempre di martedì. Il martedì “dopo il primo lunedì di novembre”, suona la bizzarra formulazione della legge in vigore dal lontano 1847. Perché allora la maggioranza della popolazione erano agricoltori, ed era opportuno attendere che fossero finiti raccolto e vendemmia, perché gli altri erano soprattutto commercianti, e il mercoledì è tradizionalmente giorno di mercato, e perché in un paese così votato a Dio non era il caso di votare la domenica. Le presidenziali sono elezioni senza appello. Uno vince e gli altri perdono. Non sono elezioni proprio dirette. Stato per stato, i grandi elettori vanno a chi arriva primo. E quindi può capitare che uno perda anche se ha un totale di voti superiore (anche di diversi milioni) all’altro. Successe a Hillary Clinton contro Trump nel 2016. Mysterium magnum dei meccanismi elettorali. I sondaggi dicono che, se si votasse adesso, tra Biden e Trump vincerebbe Trump. Oppure, nella migliore delle ipotesi, arriverebbero testa a testa. Un sondaggio pubblicato dal New York Times a novembre aveva fatto venire i brividi lungo la schiena da una parte e dall’altra dell’Atlantico perché veniva fuori che Trump vincerebbe, e non di stretta misura, con margini dal 3 ad addirittura il 10 per cento, in ben cinque di sei degli stati chiave, di quelli che oscillano tra un’elezione e l’altra e determinano l’esito delle presidenziali (altri stati vengono dati come più o meno certi per un partito o l’altro, anche se non è del tutto scontato). Abbiamo un problema, Houston, pardon Washington. Anzi più di uno. Com’è possibile che i sondaggi diano vincente lo sconfitto della tornata precedente (non ricordo sia mai successo, gli sconfitti in America non osano ripresentarsi, scompaiono dalla scena politica), uno che era pronto a ricorrere a un’insurrezione per restare alla Casa bianca, che ricattava i governatori locali perché annullassero i risultati a lui non favorevoli, uno che si ritrova tra capo e collo non so più quanti processi, compresi quelli per un tentato colpo di stato e per aver frodato il fisco (che in America è un reato gravissimo)? E’ possibile. Evidentemente mezza America lo ritiene vittima di persecuzione da parte dei suoi avversari. E le affinità elettive (scusate il bisticcio, visto che parliamo di elezioni), le affinità ideologiche, contano più degli atti giudiziari. I processi, a quanto pare, non gli fanno un baffo. Anzi sembrano avvantaggiarlo. Quel che non ammazza ingrassa, si diceva una volta. Sarebbe diverso se, oltre i processi, ci fossero anche condanne. Forse il problema è l’età di Biden? Può darsi si tratti anche di questo, anche se dai sondaggi non viene fuori. Un problema di età c’è, e si vede. Se rieletto Joe Biden assumerebbe la carica a 82 anni, e la terminerebbe a 86. Non è l’ideale per il pubblico americano che vorrebbe un presidente giovane, pimpante, energico, nel pieno delle forze, come lo furono John Kennedy, Bill Clinton e Barack Obama. Ma Ronald Reagan aveva 80 anni quando fu eletto e 84 quando fu rieletto. E Trump non è molto più giovane di Biden. Ha appena 3 anni di meno. Se fosse rieletto inizierebbe il secondo mandato a 78 anni. C’è, tra i commentatori, chi ha tirato in ballo un “rischio gerontocrazia” per la democrazia americana. Sono vecchiotte anche le altre cariche elettive. Quanto ai segni di senilità, vuoti di memoria, impappinamenti, inciampi (Biden è abituato a cadute rovinose nel salire e scendere dai palchi e dall’Air Force One), succedono a Trump quanto a Biden. Nel caso di Trump, aggravati dall’abitudine di parlare un po’ a vanvera. Su Reagan, negli anni 80, Mosca la metteva dura su senilità, rimbambimento, eccesso di barzellette e battute. Mal gliene incolse. Reagan fu uno dei presidenti più popolari e simpatici che l’America abbia mai avuto. Mentre a rivelarsi irrimediabilmente senile fu il regime sovietico. I sondaggi, si sa, lasciano il tempo che trovano. Non sarebbe la prima volta che anche in America si sbagliano di grosso (Obama veniva dato come perdente certo, la Clinton come vincente). E comunque è ancora presto per dire chi sarà contro chi, figurarsi su chi sarà il prossimo presidente. Potrebbe non trattarsi affatto di una disfida, anzi di un replay di disfida gerontologica. Potrebbe non essere Trump il candidato repubblicano, a dispetto di come stanno finora andando le loro primarie. E Biden ha già messo le mani avanti dicendo che, nel caso non fosse Trump l’avversario da battere, lui non sarebbe così sicuro di ricandidarsi. I giochi insomma sono ancora aperti. C’è ancora un gran darsi da fare, da più parti. E nelle elezioni vere, a differenza di quelle finte, non si può mai sapere come va a finire.  Ma qualcosa i sondaggi ci dicono, per quanto vadano presi cum grano salis. Ad esempio che, mentre Biden e Trump arriverebbero a giocarsela sul filo di lana, un duello tra Trump e un democratico qualsiasi, che non sia Biden, finirebbe con la sconfitta certa di Trump. Ma come? L’America di Biden è l’unico paese al mondo che va a gonfie vele, che malgrado Covid e guerre conosce tassi di crescita quasi “cinesi” (4,6 per cento), vede l’occupazione in costante crescita, sta forse riuscendo a domare l’inflazione senza cadere in una recessione. Per la prima volta da decenni anche gli operai, i “dimenticati” che avevano abbandonato la Clinton votando per Trump, vedono accolte le loro rivendicazioni salariali e sindacali. Ma cos’hanno da lamentarsi? Aveva torto Clinton a ripetere ossessivamente ai suoi: “It’s the Economy, Stupid!”? Il problema forse è che una cosa sono i numeri, un’altra il modo in cui la realtà economica viene percepita dalla gente. Solo il 14 per cento degli americani risponde di star meglio oggi rispetto a quando Biden ha assunto la presidenza. Tutti quanti si lamentano dell’aumento dei prezzi. Ma chi e perché ce l’ha col povero Biden? Abbiamo indizi. Ad abbandonare Biden sono soprattutto i giovani, e in modo particolare i giovani di colore, ispanici e neri. E a passare dalla parte di Trump e dei conservatori repubblicani sono, come nel 2016, i “non-bianchi”. Ma anche, sorpresa sorpresa, le nuove generazioni di immigrati ispanici o asiatici. Ma come, proprio quelli che avrebbero dovuto essere offesi a morte da Trump quando per giustificare il Muro disse che il Messico mandava apposta “criminali, trafficanti di droga e stupratori” e che gli immigrati clandestini “avvelenano il sangue del nostro paese”? Ebbene sì, ci sono nel Regno Unito caterve di immigrati di generazioni precedenti che hanno votato per la Brexit e che sono più xenofobi dei britannici “di razza”. Così come nella Germania degli anni 30 gli ebrei integrati davano ragione a Hitler quando se la prendeva con l’accozzaglia di “criminali ebrei” che cercavano asilo in fuga dai pogrom e dalla miseria dell’Est. Gratta gratta, anche nelle elezioni Usa, It’s the coalition Stupid! Non nel senso di coalizioni tra forze politiche, ma nel senso di saper mettere insieme un mix vincente di spinte sociali, ideali, generazionali, di umori, e anche di fisime nell’opinione pubblica. Nessun partito, nessun candidato può arrivare alla Casa Bianca se non indovina il mix giusto. 
 

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