Il tunnel in cui Israele è sprofondato il 7 ottobre ha una sola via d’uscita: quella che rafforza le politiche di sicurezza. Lo raccontano gli ultimi sondaggi: numeri che evidenziano due trend chiarissimi. La devastante perdita di consensi del primo ministro Netanyahu, ritenuto responsabile delle falle nella sicurezza che hanno consentito agli uomini di Hamas di penetrare nel Sud del Paese e agire indisturbati per ore prima che l’esercito riuscisse a fermarli. E la scomparsa dal panorama politico della sinistra dei padri fondatori del Paese, quel Labour già da anni in pesantissima crisi – alle ultime elezioni ha ottenuto solo quattro seggi che pochi giorni fa ha perso anche la sua leader Merav Michaeli, dimessasi vista l’impossibilità di operare nello scenario post 7 ottobre.
A sancire la situazione è una ricerca commissionata dal canale tvChannel 12 al gruppo Migdam: se Israele andasse alle urne oggi a vincere nettamente (37 seggi rispetto ai 12 attuali e su una maggioranza alla Knesset che è di 61) sarebbe il partito di Unità nazionale di Benny Gantz e Gadi Eisenkot, i due ex capi di Stato maggiore che a lungo hanno guidato l’opposizione e si sono uniti al governo di emergenza nazionale dopo le stragi. Eisenkot pochi giorni fa a Gaza ha perso il figlio e un nipote: un sacrificio che non ha fatto che far crescere il rispetto pubblico nei suoi confronti. Al secondo posto, lontanissimo, il Likud di Netanyahu: 18 seggi contro i 32 di oggi.
Solo terzo, 15 seggi rispetto ai 24 attuali, il centrosinistra di Yesh Atid guidato da Yair Lapid, l’altro leader dell’opposizione, colui che all’indomani del 7 ottobre ha scelto di separare la sua strada da quella di Gantz, rifiutando di sedere in un gabinetto in cui i ministri dell’ultradestra religiosa (anch’essa in forte calo) che aveva portato Netanyahu al governo avrebbero mantenuto i loro posti: scommessa che al momento non pare essere stata vincente. Peggio ancora di Lapid andrebbe il restodella sinistra storica: zero seggi per il Labour, il culmine di una crisi che da anni non fa che peggiorare. Non basterebbero a consolare gli orfani dei laburisti i dati relativi a Meretz, il partito progressista basato nell’area di Tel Aviv e legato ai kibbutz: alle ultime consultazioni non era entrato alla Knesset, mentre questa volta avrebbe cinque deputati.
In tutto, Gantz e gli uomini con cui si era alleato in passato, oggi otterrebbero 71 seggi, controllando comodamente la Knesset, mentre l’attuale coalizione scenderebbe a 44.
La lettura dei numeri sui media israeliani è univoca: se la maggioranza dell’elettorato non è disposta a perdonare Netanyahu, ancor meno è disposta a dare credito a chi (la sinistra) per anni ha invocato la necessità di un dialogo costruttivo con i palestinesi. Il mood dell’opinione pubblica, compresa la maggior parte della sua anima progressista, è chiaro: dopo il 7 ottobre ogni prospettiva di dialogo è lontana, è necessario fermare Hamas una volta per tutte. Non è un caso che, nonostante l’alto numero di morti fra i militari israeliani e le pressioni internazionali, le richieste di cessate il fuoco siano legate sempre alla crisi degli ostaggi e non alla richiesta di un’opzione diversa rispetto a quella militare. E non è un caso che in questo senso vadano anche le parole di Naftali Bennett, ex primo ministro, uomo della destra, falco sulla questione palestinese, che si sta preparando a tornare in scena: ieri ha chiesto al governo di «non permettere il ritorno della popolazione nel Nord di Gaza finché tutti gli ostaggi non saranno rilasciati».