Secondo la Torah non basta cessare le guerre e abbandonare le armi bisogna prima eliminare il male, altrimenti il discorso è solo conformismo
Abbiamo chiesto ai credenti delle tre religioni monoteistiche una riflessione “tra guerra e pace” Cominciamo con l’ebraismo
La coincidenza piena tra giustizia e pace, di cui troviamo un riferimento esplicito nel Salmo, 85; 11 «... bontà e verità si incontrano, giustizia e pace si baciano… », sembrerebbe appartenere solo alla dimensione messianica. La giustizia e la pace non sarebbero una realtà di questo mondo, ma una ricerca e un’aspirazione ininterrotta dell’uomo. Nella saggezza ebraica, la ricerca della pace non si trasforma mai in un’adesione cieca al pacifismo assoluto. Quest’ultimo è una dottrina che eleva la pace — o più precisamente, l’assenza di conflitti — a valore supremo, mettendo in ombra altri importanti principi etici. In una prospettiva più pragmatica la Bibbia ebraica riconosce che «c’è un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace » (Ecclesiaste, 3; 8). Di conseguenza, anziché proibire la guerra la Torah mira a regolamentarla, imponendo limiti ben definiti per contenere l’impeto distruttivo.
Questo avviene perché la tradizione ebraica è impegnata a sviluppare una comprensione di guerra e pace che tenga conto dell’ampia gamma di valori che nobilitano la vita umana e della complessità delle situazioni con cui persone e nazioni sono costretti a confrontarsi. Attraverso questo approccio, si cerca di evitare un’interpretazione superficiale e astratta dell’idea di pace che potrebbe condurci verso comportamenti retorici e eccessivamente indulgenti. Ciò ingenera spesso forme di buonismo indistinto che si trasformano irreparabilmente in una connivenza con il male. Non è possibile assimilare ogni guerra, né uniformare sotto un unico standard morale le motivazioni che le innescano. Vi sono guerre di aggressione e guerre di difesa, così come azioni militari intraprese per prevenire tragedie di maggiore entità, quali eccidi e crimini contro l’umanità. A volte quel tentativo un po’ ipocrita di superare le divisioni a favore di una presunta equivalenza etica puòscivolare in quel gelatinoso conformismo per il quale «siamo tutti vittime», che altro non significa «nessunavittima»,ugualea«nessuncarnefice».
Non si può costruire il bene e declamare la pace se prima non si elimina il male: «... allontanati dal male e fai il bene, cerca la pace e inseguila » recita il Salmo, 34; 15. Non è sufficiente limitarsi a proclamare intenzioni; è necessario agire costantemente per realizzarle. Il termine shalom, pace, presente nella Bibbia ebraica oltre 200 volte, raramente corrisponde al significato un po’ limitato che gli viene attribuito nella cultura occidentale moderna: mera assenza di conflitto, cessazione delle ostilità, un ordine (ri)stabilito sotto un potere riconosciuto e legittimo analogamente alla “pax romana”.
Tali interpretazioni del concetto di pace sono, per così dire, strumentali, poiché si inseriscono nell’idea di “shalom” solo se contribuiscono a favorire una vita pienamente realizzata, ricca nelle sue molteplici dimensioni e compiuta, nonostante le contraddizioni intrinseche in ogni esistenza umana. Ridurre il termine “shalom” a “pace” è un’interpretazione troppo limitata. Nell’ebraico, la radice di “shalom”, pace, deriva da “shalem”, che significa completo, integro, perfetto. Il Maharal di Praga (1512-1609) sottolineava che solo l’Eterno rappresenta la pace: il Suo Nome è Shalom, che non è solo un attributo, ma la Sua essenza. In un mondo segnato dai conflitti, dove manca la pace, manca anche la completezza. Di questa incompiutezza e dei tentativi per ricomporre le fratture e le scissioni determinate dalla guerra si parla in maniera significativa nella Bibbia nel capitolo 17 dell’Esodo, quando viene descritto l’attacco proditorio di Amaleq al neonato popolo ebraico. L’aggressione di Amaleq è la prima esperienza di guerra del popolo ebraico all’indomani della sua uscita dall’Egitto, il primo vero conflitto di cui parla la Torah. Una vittoria così importante che a Mosè fu comandato di scriverla nel suo Libro e farla diventare, a pieno titolo, un momento paradigmatico dell’esperienza storica dell’ebraismo. Questa guerra assurge a qualcosa di più di un semplice conflitto armato. Amaleq e il suo popolo, gli amaleciti, divengono un archetipo: la memoria perenne della valenza disgregatrice della guerra. Per ricollegarci all’etimologia di shalom, shalem, Amaleq è non solo la negazione della pace, ma soprattutto la negazione della compiutezza, persino di quella divina. Molti Maestri del misticismo ebraico hanno visto nella mancanza di compiutezza divina, una allusione alle tragiche esperienze di “eclissi di Dio” che hanno caratterizzato molta parte della storia ebraica. La Tradizione ebraica vede in Amaleq l’archetipo dell’antiebraismo gratuito e irrazionale presente in tutte le generazioni, il precursore di quanti, nei secoli a venire, minacceranno l’esistenza di Israele. Tanto è vero che il preciso ammonimento «Ricorda ciò che ti ha fatto Amaleq », ribadito dalla Torah (Deuteronomio 25, 17), è annoverato fra i 613 precetti ai quali l’ebreo deve informare la sua vita. Nel primo libro di Samuele, capitolo 15, si racconta della guerra che re Saul condusse contro il popolo di Amaleq. Contravvenendo alle esplicite istruzioni del profeta Samuele, Saul decide di non eliminare Agag, il re nemico. Questa violazione scatena una decisa riprovazione da parte del profeta, che predice la fine del regno di Saul in favore di una nuova dinastia. Samuele chiede che il re nemico sia portato davanti a lui e lo uccide personalmente. Il re Saul, di fronte all’ordine di distruggere gli amaleciti, manifesta incertezza, influenzato dai principi biblici di rispetto per la vita. Come risposta, una voce divina gli ricorda l’Ecclesiaste 7:16: «Non essere eccessivamente giusto ». La severità del profeta Samuele ci lascia perplessi e continua a sorprenderci, e un’analisi superficiale di questo racconto potrebbe portare erroneamente a dedurre un allontanamento dai fondamentali principi etici di fronte a nemici implacabili. Ma, nonostante l’ordine divino di sterminare gli amaleciti sia circoscritto a una situazione specifica, tale interpretazione vuole porre in risalto la deficienza di Saul come leader, specialmente nella sua capacità di fronteggiare la minaccia di eliminazione del popolo ebraico da parte di Amaleq. Un insegnamento rabbinico derivante da questo episodio afferma che «chi si mostra indulgente nei momenti che richiedono fermezza finirà per essere inflessibile in quelli che richiederebbero clemenza ». Amaleq, l’archetipo di un conflitto metastorico, provoca una terribile frattura che soltanto un forte e saldo legame tra le generazioni potrà ricomporre. La nostra possibilità di restituire al Creatore la sua compiutezza, e di trionfare su Amaleq e su ogni forma di disgregazione, sia individuale che collettiva, dipende dalla forza delle generazioni, di maestri e discepoli, di genitori e figli, capaci di sviluppare un dialogo sano e libero da concetti corrotti e malati. Malachia, l’ultimo dei profeti di Israele, sintetizza proprio in questa relazione la realizzazione dei giorni messianici e la restaurazione della vera pace: «e ricondurrò il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri » (Malachia 3, 24).
Ogni ebreo al termine della Amidà, parte principale delle tre preghiere quotidiane, recita la formula: «… Concedi una pace buona su di noi…». La pace non è tale se solamente tacciono i cannoni, perché sia completa dovrà essere buona. Se tacciono i cannoni è già un gran successo, ma è solo il punto di partenza verso la buona pace, che sarà prima di tutto rispetto per ogni persona. Per questa ragione, quando l’ebreo recita questa benedizione si ritira facendo tre passi indietro, come un suddito che si congeda dalla presenza del proprio sovrano. Un’interpretazione suggestiva di questo gesto mette in evidenza come per raggiungere la pace è necessario essere disposti a retrocedere non di uno, ma di tre passi. E proprio di questo indietreggiamento si avverte oggi l’urgenza, liberarsi dai pregiudizi e dai luoghi comuni che stanno alimentando una demonizzazione assoluta e una delegittimazione di Israele dai risvolti poco limpidi.
L’autore è rabbino e direttore del Dipartimento Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane