Il cielo è un abisso di stelle Dahlia Ravikovitch
Poesie
A cura di Sara Ferrari
Traduzione di Suzy Shammah e Sara Ferrari
Giuntina euro 18
“La poesia fu il mezzo attraverso il quale avvenne “l’educazione
sentimentale” dell’uomo e di tutta la cultura ebraica, poiché fu il
luogo in cui vennero formulate, talora realmente per la prima
volta, delle emozioni in lingua ebraica…” (Ariel Hirschfeld)
Quando si entra in una libreria salta all’occhio l’ampio spazio riservato alla saggistica e alla narrativa mentre la poesia, ingiustamente, è relegata un po’ ai margini. Lo stesso si può dire per la fortunata narrativa israeliana molto più conosciuta e apprezzata nel nostro paese rispetto alla produzione poetica proveniente da Israele. L’arrivo in libreria del volume “Il cielo è un abisso di stelle” della poetessa Dahlia Ravikovitch magistralmente curato da Sara Ferrari, studiosa di ebraismo e docente di Lingua ebraica presso l’Università degli Studi di Milano, che ha curato fra gli altri il bel volume “Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica” (Belforte, 2007) e Tali Latowicki “Camera Obscura”, (Belforte, 2008) è un’occasione imperdibile per approfondire una forma d’arte davvero unica. Perché la poesia riesce a richiamare alla mente e al cuore sensazioni dimenticate attraverso le parole. Può evocare luoghi fisici o immaginari, sentimenti che scuotono l’anima, emozioni positive o negative. Le poesie di Dahlia Ravikovitch che arrivano al lettore nella brillante traduzione di Sara Ferrari e Suzy Shammah celebrano tutta la bellezza di questa arte e in tal modo anche la poesia israeliana viene ad occupare il posto che merita, entrando a far parte del patrimonio poetico mondiale. Con l’ausilio dell’accurata introduzione di Sara Ferrari e della Nota biografica di Bianca Ambrosio e Adam Coman posta al termine del volume cerchiamo di conoscere questa figura di intellettuale che il quotidiano israeliano Yediot Aharonot definisce nel marzo 1996 “la nostra poetessa più grande”, termine questo (“meshoreret” in ebraico), derivante da una forma maschile, non gradito a Dahlia Ravikovitch come pure alla sua mentore Lea Goldberg, in quanto mette in evidenza lo stato marginale e il livello subalterno cui la poesia scritta da donne era relegata in quegli anni. Non bisogna dimenticare che agli inizi della sua carriera letteraria, fra la fine degli anni Cinquanta e l’avvio del decennio successivo, le donne appaiono come figure secondarie nel panorama delle diverse generazioni poetiche. In questa ricerca incessante di una visione egualitaria nella poesia sia Goldberg che Ravikovitch sollecitano una totale legittimazione della loro opera, “dichiarando con ferma convinzione che il loro mondo interiore e poetico non fosse “speciale” o “diverso”, destinato alle sole donne, ma potesse, invece, coincidere, con quello dell’umanità tutta”. Nella vita di Dahlia accadono alcuni avvenimenti dolorosi destinati a influire sia sulla sua personalità che sulla sua poetica, al punto che quando muore nel 2005 si parlerà erroneamente di “suicidio” per uno stato di sofferenza psichico di cui peraltro lei stessa non aveva mai fatto mistero. Nata a Ramat Gan nel 1936 da genitori di origini russe Dahlia subisce un primo shock con la morte del padre in un incidente stradale nel 1942, una tragedia che segna nel profondo la sua infanzia e successivamente il trasferimento nel kibbutz Geva-Emek si rivela negativo per il clima di esclusione che avverte attorno a lei. Con la forza d’animo che già la caratterizza si trasferisce a Haifa e trascorre l’adolescenza tra diverse famiglie affidatarie, un’esperienza che acuisce il suo sentimento di solitudine e inadeguatezza. Dopo gli studi presso la facoltà di letteratura inglese e linguistica ebraica dell’Università Ebraica di Gerusalemme, Dahlia Ravikovitch esordisce nel 1959 con la raccolta “L’amore di una mela d’oro” in un’epoca di grandi rivolgimenti per la poesia ebraica. Come gli altri poeti della sua generazione (Yehuda Amichai, Nathan Zach, David Avidan) Dahlia dedica nei propri componimenti una particolare attenzione all’esperienza individuale e alla vita privata distinguendosi però per un modo di scrivere originale che include temi classici a fianco di una lingua ricca di allusioni ai testi della tradizione ebraica (Bibbia, Midrash, Talmud ecc.). La seconda raccolta, pubblicata nel 1964, “Un inverno difficile” è la conferma del suo talento tanto che su Haaretz è definita “una delle più importanti rivelazioni della poesia contemporanea”. Dopo altre raccolte di poesie e libri per bambini nel 1969 esce “Il terzo libro”, un volume in cui si nota una struttura degli scritti più libera, un linguaggio più moderno, oltre che una visione del mondo che si avvicina all’esistenzialismo; emergono personaggi forti e al contempo vulnerabili, indipendenti, passivi e fragili. Se l’evento traumatico della morte del padre, rievocato nella splendida poesia “Sta sulla strada la notte quest’uomo”, costituisce il doloroso spartiacque nella vita dell’autrice che determinerà quella solitudine abissale e quella sofferenza psicologica espressa nei suoi componimenti poetici, la nascita nel 1977 del figlio Ido rinnova nella poetessa l’ispirazione e l’entusiasmo, al punto da definirla l’unica esperienza che le consente di percepire un senso di eternità. In questi testi il lettore osserva con empatia il variegato universo del rapporto madre/figlio, un’esperienza quella della maternità che spinge Ravikovitch “a interrogarsi ancora sul proprio ruolo di poeta all’interno della società israeliana, elevandolo ulteriormente, forse in maniera definitiva”. Essere madre le consente di comprendere meglio gli eventi politici che coinvolgono il suo paese, di immaginare la sofferenza di altre donne e di sentirsi vicina al dolore di madri e bambini palestinesi. Questa esperienza personale, che fa germogliare una coscienza politica, mette in primo piano il valore della solidarietà verso i più deboli e oppressi. Più che “politica” però quella di Ravikovitch è “una poesia umanistica che riconosce, esprime e si fa coinvolgere dalla sofferenza umana, e a cui solo in un secondo momento segue una presa di posizione”. Da ultimo mi preme sottolineare il contributo di Dahlia Ravikovitch alla storia del femminismo nello Stato ebraico come spiega Sara Ferrari nell’introduzione: “In Israele la poesia ha preceduto l’attivismo e i movimenti politici nello stabilire una strategia sul discorso di genere e Dahlia Ravikovitch è stata un’antesignana su tutti i fronti, offrendo un contributo irripetibile alla formazione di una coscienza femminista nello stato ebraico”. Numerosi sono i premi che ha ricevuto nel corso della sua carriera tra cui il prestigioso Premio Bialik nel 1987 e il Premio Israele nel 1998 a conferma del suo talento poetico che ha arricchito con una voce attuale, ribelle e indipendente il patrimonio culturale israeliano. La scomparsa prematura di Dahlia Ravikovitch ha rappresentato la perdita di una delle figure più coraggiose e innovative d’Israele “mentre i suoi versi e la sua eredità continuano a vivere con le nuove generazioni, che ritrovano nella sua opera un valore autentico e duraturo”. Leggere “Il cielo è un abisso di stelle” di Dahlia Ravikovitch e, aggiungo, “Lampo all’alba” di Lea Goldberg, entrambi pubblicati da Giuntina nella prestigiosa collana classica “Schulim Vogelman” è un’occasione imperdibile per accostarsi a una forma d’arte unica capace di parlare al cuore e alla mente di tutti.
Giorgia Greco