Milano. Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale dell’Amministrazione americana, arriva oggi in Israele per incontrare Benjamin Netanyahu e il war cabinet e discutere dei tempi della guerra contro Hamas. Parlando lunedì con il Wall Street Journal, Sullivan ha detto: “Non si deve passare dalla situazione di oggi al nulla in termini di pressione sugli obiettivi di Hamas e la sua leadership ed è necessario conservare gli strumenti per ottenere il rilascio degli ostaggi, ma bisogna entrare in una fase diversa rispetto alle operazioni ad alta intensità di oggi”. In termini più spicci: gli americani chiedono a Netanyahu di continuare a dare la caccia a Hamas ma cambiando tattica, cioè riducendo o fermando gli attacchi aerei su Gaza e proteggendo così la popolazione palestinese. I bombardamenti sono stati definiti “indiscriminati” dallo stesso presidente, Joe Biden.
Le parole del presidente americano sono state lette come una frattura con l’alleato israeliano: c’è chi ha detto finalmente!, chi ha detto troppo tardi, chi pensa che tanto Netanyahu non ascolta nessuno se non i suoi ministri più estremisti, chi riesuma gli antichi attriti tra il presidente americano e il premier israeliano. La linea americana è sempre stata: bisogna sradicare Hamas e fare il più possibile per proteggere i palestinesi, e in tutte le votazioni all’Onu sul cessate il fuoco immediato, gli Stati Uniti hanno votato contro. Ma ora che la guerra a Gaza entra nel suo terzo mese e che le possibilità di evacuazione sono esaurite – da nord della Striscia si poteva andare a sud, ma da sud non si va più da nessuna parte – Washington chiede che si cambino non certo gli obiettivi, ma la tattica sì. Definendo i bombardamenti in corso “indiscriminati”, Washington va al cuore delle tattiche utilizzate finora: il discrimine sono gli obiettivi militari e quelli civili, e a Gaza è molto difficile da stabilire visto che i terroristi di Hamas sono volutamente mischiati alla popolazione. Ma ora che non ci sono vie di fuga possibili per i civili, questo discrimine pare più visibile ed è per questo che Washington dice: parliamo dei tempi, e della necessità di ampliare gli aiuti – e la possibilità di consegnarli – a Gaza. Sia in Israele sia in America si parla di settimane, su quante serve parlare, con il rischio che, come tutto ciò che è a scadenza, si finisca per fornire delle tempistiche anche a Hamas, cosa che naturalmente stravolge l’obiettivo di ridurre al minimo – o estirpare – le capacità militari del gruppo terroristico.
Le discussioni sui tempi sono sempre preoccupanti. Lo sono per Israele, naturalmente, che deve annichilire la minaccia esistenziale, ma lo sono anche per gli Stati Uniti che ormai vivono la loro politica internazionale con lo spettro del 2024 e del ciclo elettorale incombente. Biden paga un prezzo alto per il suo sostegno a Israele soprattutto nella base più giovane del Partito democratico. Gli strateghi sono divisi a metà: chi dice che tra un anno, quando si voterà, sarà tutto diverso e chi è già disperato. Julia Ioffe è andata a vedere bene i sondaggi e al di là dei titoli che danno Biden per impopolarissimo ha trovato altri elementi rilevanti. Ne ha scritto su Puck: nel fine settimana, un sondaggio Cbs-YouGov diceva che il 61 per cento degli americani disapprova il modo con cui Biden gestisce il conflitto, a ottobre era il 58, ma gran parte di questo disamore è dei conservatori, che di amore non ne hanno mai provato. Non sono i radicali pro palestinesi che sono scontenti di Biden: il 69 per cento degli intervistati raggruppa chi pensa che gli Stati Uniti stiano dando il giusto aiuto a Israele e quelli che pensano che non sia “sufficiente”. In sostanza la colonna di chi crede che Biden sta facendo troppo poco per Israele è più grande di quella di chi dice che sostiene troppo Israele. Il tempo, anche qui, è cruciale.