«Nulla ci fermerà». Le parole che segnano la svolta definitiva della guerra di Netanyahu sono solo tre. Hanno un destinatario chiaro, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, e un messaggio ancora più chiaro: lo scontro che martedì ha visto contrapposti i due leader politici più importanti di questa crisi, Netanyahu e Biden appunto, non è stato un incidente di percorso. Ma la svolta diplomatica più importante che finora ha avuto questa guerra.
Al presidente americano che lo metteva in guardia dal rischio di «perdere il consenso del mondo», il premier israeliano aveva detto: «Gaza non sarà un Hamastan e nemmeno un Fatahstan». Ieri lo stesso concetto è stato ribadito ai militari sul terreno: «Andremo avanti fino alla fine. Non deve esserci nessun dubbio su questo. Lo dico alla luce della grande sofferenza che abbiamo toccato con mano ma anche alla luce delle pressioni internazionali. Nulla ci fermerà», ha detto Netanyahu parlando via radio con uno dei comandanti impegnati a Gaza. Il “dolore” a cui fa riferimento è quello legato alla perdita di dieci militari martedì, nella giornata più sanguinosa per le Forze armate israeliane (Idf) dall’inizio della guerra: i soldati, inclusi due comandanti, sono stati uccisi in una lunga battaglia a Shujaiyeh, quartiere densamente popolato di Gaza City, in un episodio che dimostra la forza che Hamas ancora ha.
Ma né le perdite né gli avvertimenti americani hanno fatto cambiare posizione a Netanyahu, che in questa guerra combatte – ed è opinione diffusa fra gli analisti israeliani e non - oltre che per la proclamata sopravvivenza di Israele, anche per la propria. «Quello che sta cercando di fare è assicurarsi un rinnovato appoggio da parte degli elettori di destra, che in parte lo hanno abbandonato alla luce del disastro del 7 ottobre e dei successivi fallimenti del governo», scriveva ieri su Yediot Ahronot Nahum Barnea, uno dei principali commentatori israeliani. «In altre parole: non è Biden che gli interessa, né tantomeno Gaza. Quello che gli interessa è il suo futuro politico. Ha fallito come Mr. Sicurezza e come Mr. America. Forse avrà più successo come Mr. Mai Palestina».
Il rifiuto netto delle posizioni espresse da Biden andrebbe dunque in questa direzione. Ma non solo: a undici mesi dalle presidenziali americane del 2024, gli ultimi sondaggi danno Trump in vantaggio rispetto al presidente uscente. È presto, tutto in America può ancora succedere: ma nel “tutto” c’è anche la possibilità di un ritorno alla Casa Bianca di quel Trump che per Netanyahu è stato il partner migliore degli ultimi vent’anni, il leader che ha fatto ciò che nessuno prima di lui aveva osato, spostando a Gerusalemme l’ambasciata statunitense. Quello che ha portato fuori il suo Paeseda quel patto sul nucleare con l’Iran firmato da Obama e che il premier israeliano aveva sempre interpretato come un tradimento personale.
Secondo le ricostruzioni della stampa israeliana, la spaccatura maggiore fra la Casa Bianca e Netanyahu è concentrata su due punti: la volontà di mantenere il controllo militare sul Nord di Gaza anche dopo la fine dell’attacco alla Striscia. E il rifiuto di prendere in considerazione l’ipotesi di coinvolgere l’Autorità nazionale palestinese nel futuro di Gaza e ogni possibile trattativa di pace: «Oslo è stata la madre di tutti gli errori», ha detto Netanyahu nei giorni scorsi a una riunione ristretta inParlamento. Fumo negli occhi per Biden, che da settimane invoca un ritorno alla discussione sui due Stati. Nella spaccatura ha cercato ieri di inserirsi Hamas: qualsiasi accordo a Gaza senza Hamas è un’«illusione», ha detto il leader politico del gruppo Ismail Haniyeh in un discorso trasmesso in tv. «Siamo aperti a discutere qualsiasi idea o iniziativa che possa porre fine all’aggressione e aprire la porta per mettere ordine nella casa palestinese, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza».
Tutto questo sarà oggi al centro dei faccia a faccia che il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa Sullivan avrà in Israele. In un’atmosfera che si annuncia assai più gelida che in precedenza.