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Il Foglio Rassegna Stampa
13.11.2023 La guerra delle parole
Editoriale di Claudio Cerasa

Testata: Il Foglio
Data: 13 novembre 2023
Pagina: 5
Autore: Claudio Cerasa
Titolo: «La menzogna dell’imparzialità nella guerra delle parole»

Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 13/11/2023, a pag. 5, con il titolo 'La menzogna dell’imparzialità nella guerra delle parole' l'editoriale del direttore Claudio Cerasa.

ClaudioCerasa
Claudio Cerasa

Io sto con Israele. Israele ha il... - Noi che amiamo Israele | Facebook

C’è una guerra che si combatte con le armi e c’è una guerra che si combatte con le parole. La guerra che si combatte con le armi è quella che si combatte in medio oriente, tra Hamas e Israele. La guerra che si combatte con le parole è quella che si combatte nel resto del mondo, nelle piazze delle città, nei salotti dei talk-show, sulle pagine dei giornali. La guerra si vince con le armi, ma anche le parole possono essere utilizzate come strumenti di guerra. E il momento in cui le parole diventano armi di un conflitto è quello in cui le parole vengono utilizzate per influenzare il dibattito pubblico in un modo preciso: presentando espressioni ideologicamente connotate come se queste fossero neutrali e nascondendo una presa di posizione netta su un tema dietro la menzogna dell’imparzialità. Il 6 novembre il Wall Street Journal ha messo in fila alcune parole con le quali, così ha scritto Gerard Baker, “sono stati compiuti tutti i tipi di astuti sforzi per farci capire che il paese i cui cittadini sono stati arbitrariamente massacrati il 7 ottobre da un nemico che ha giurato di spazzarlo via dal pianeta è in realtà il malvagio oppressore”. Quella che segue è una nostra selezione, non esaustiva ma utile a orientarci di fronte a chi, fingendo di essere neutrale di fronte al conflitto, ha in verità già scelto da che parte stare. Nel migliore dei casi, dalla parte della minimizzazione. Nel peggiore dei casi, dalla parte di chi considera Israele non l’aggredito ma l’aggressore. Cessate il fuoco. Chi usa questa espressione tende a scaricare su Israele le responsabilità e gli orrori della guerra. Chiedere il cessate il fuoco collegandolo alla liberazione degli ostaggi e alla creazione di due popoli e due stati è un conto. Chiedere il cessate il fuoco senza mettere in campo i due elementi significa voler offrire a Hamas spazi ulteriori per portare avanti il suo progetto: due popoli, uno stato e la distruzione di Israele. Scrive l’Economist: “Un cessate il fuoco oggi è nemico della pace, perché consentirebbe a Hamas di continuare a governare su Gaza con il consenso o con la forza, con la maggior parte delle sue armi e dei suoi combattenti intatti. Le ragioni a favore delle pause umanitarie sono più forti, ma anche queste implicano un compromesso. Pause ripetute aumenterebbero le probabilità che Hamas sopravviva”. Uno dei leader di Hamas, Ghazi Hamad, pochi giorni fa, ha affermato all’emittente libanese Lbci news che, in caso di cessate il fuoco, il gruppo terroristico avrebbe ripreso le ostilità ancora e ancora fino all’obiettivo finale: uccidere tutti gli ebrei. Apartheid. L’evocazione della politica di segregazione razziale praticata da Israele nei confronti dei palestinesi è diventata come un mantra per i nemici di Israele. La professoressa Daniela Santus, che insegna Lingue e Letterature straniere e Culture moderne all’Università di Torino, qualche giorno fa ha offerto un bignamino per un ripasso sul tema. In Israele, ha ricordato, gli arabi vivono in ogni distretto, ma particolarmente a nord. A Nazareth, nel 2017 vivevano 76.551 persone, 40 mila delle quali erano di fede islamica. A sud vi sono importanti insediamenti arabi, Rahat ha quasi 70 mila abitanti. Vi sono 122 comuni israeliani composti interamente o per la maggior parte da cittadini arabi. Negli ultimi sette anni, il numero degli studenti arabi nelle università israeliane è cresciuto del 78,5 per cento. Diversi partiti arabi sono rappresentati alla Knesset: Balad, United Arab List, Islamic Movement in Israel, Ta’al. Il precedente governo, guidato da Naftali Bennett, aveva al suo interno il partito arabo-islamico Raam con quattro seggi. Gli arabi in Israele godono di pieni diritti politici e civili e possono assurgere a qualsiasi carica, al pari dei cittadini ebrei. L’apartheid, conclude la professoressa, esiste soltanto nella propaganda di chi vorrebbe la cancellazione dello stato ebraico. Dal fiume al mare. Diversi appelli per il cessate il fuoco sono stati accompagnati in questi giorni da una espressione apparentemente neutrale: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. “Dal fiume al mare” è una frase che non indica semplicemente la volontà legittima dei palestinesi di avere uno stato riconosciuto ma è una frase che implicitamente sostiene la necessità di uccidere o deportare 9 milioni di israeliani. L’area che va dal fiume al mare si riferisce all’intera area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. In quell’area vi sono i territori conquistati da Israele nel 1967 durante la Guerra dei sei giorni ma anche l’intero Israele. Chiamare tutta quell’area “Palestina”, come abbiamo già scritto, non è un appello a porre fine all’occupazione, a creare una soluzione a due stati, o a riportare Israele ai confini che esistevano prima del 1967. E’ un appello per l’eliminazione di Israele nella sua totalità. E quando si dice di voler eliminare Israele, dove vive circa la metà della popolazione ebraica mondiale, si sta semplicemente sostenendo il genocidio. Dal fiume al mare. Genocidio. La narrativa della decolonizzazione, ha scritto sull’Atlantic Simon Sebag Montefiore, in un testo pubblicato in esclusiva per l’Italia dal Foglio, ha disumanizzato gli israeliani al punto che persone altrimenti razionali giustificano, negano o sostengono la barbarie. Una narrativa secondo la quale Israele è una forza “imperialista-colonialista”, gli israeliani sono “colonialisti” e i palestinesi hanno dunque il diritto di eliminare i loro oppressori. Sebbene ci sia un forte istinto a rendere tutto questo un “genocidio” che ricorda l’Olocausto, continua Montefiore, non lo è: i palestinesi soffrono per molte cose, tra cui l’occupazione militare; le intimidazioni e le violenze dei coloni; una leadership politica palestinese corrotta; l’insensibile negligenza da parte dei loro fratelli in più di venti stati arabi; il rifiuto da parte di Yasser Arafat, il defunto leader palestinese, di piani di compromesso che avrebbero visto la creazione di uno stato palestinese indipendente, e così via. “Niente di tutto ciò – scrive ancora l’autore – costituisce un genocidio, o qualcosa di simile a un genocidio. L’obiettivo israeliano a Gaza, anche per ragioni pratiche, è quello di ridurre al minimo il numero di civili palestinesi uccisi. Hamas e organizzazioni affini hanno abbondantemente chiarito nel corso degli anni che massimizzare il numero di vittime palestinesi è nel loro interesse strategico”. Tragedia sì, genocidio no. Contestualizzare. L’espressione in questione viene spesso utilizzata da coloro che, di fronte allo sterminio del 7 ottobre, cercano di non concentrarsi sul dettaglio, sulla singola inquadratura, e tentano, con approccio astuto, di spiegare perché la questione è più complessa e perché dinanzi alla scena di un terrorista che uccide un ebreo colpevole di essere ebreo bisogna necessariamente fare un discorso più generale. “Gli attacchi di Hamas non sono venuti dal nulla”, ha detto l’illuminato segretario delle Nazioni Unite António Guterres, poco prima di festeggiare l’arrivo dell’ambasciatore iraniano alla guida del Forum sociale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Chi sceglie di “contestualizzare”, di solito, lo fa per spiegare che le azioni dei terroristi nascono non dalla volontà di negare al popolo ebraico il diritto di esistere, come d’altronde recita il primo statuto di Hamas, ma dalla volontà di reagire alle violenze arrecate da Israele ai suoi vicini. Obiettivo della contestualizzazione: evitare di ragionare sull’islamismo fondamentalista che mette la religione al servizio di una causa precisa (l’eliminazione del popolo ebraico) e cercare di suggerire all’interlocutore una convinzione precisa: Israele è stato attaccato non perché è odiato dai suoi vicini, che non accettano la sua esistenza, non perché il popolo ebraico oggi è vittima di un odio violento simile a quello che ha vissuto nei periodi più bui della storia, ma semplicemente perché se l’è cercata. Contestualizzare uguale minimizzare.

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