Testata: Il Foglio Data: 11 ottobre 2023 Pagina: 5 Autore: Giulia Pompili Titolo: «I pacifinti di Pechino»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 11/10/2023, a pag.5, con il titolo "I pacifinti di Pechino" l'analisi di Giulia Pompili.
Giulia Pompili
Putin con Xi Jinping
Roma. Domenica scorsa, il giorno dopo l’inizio del brutale attacco di Hamas contro Israele, la Repubblica popolare cinese ha commentato con una dichiarazione di un non specificato portavoce del ministero degli Esteri, che evita accuratamente la condanna delle azioni dei terroristi, ma dice che la Cina “è profondamente preoccupata per l’escalation” e chiede alle parti di “mantenere la calma”. Poi, al Consiglio di sicurezza dell’Onu, Zhang Jun ha detto che la Cina “ha invitato tutte le parti interessate a dar prova di moderazione”. Le stesse frasi usate dalla Cina il 25 febbraio del 2022. “La via d’uscita fondamentale dal conflitto è l’attuazione della soluzione dei due stati e la creazione di uno stato palestinese indipendente”, dice il funzionario cinese usando formule retoriche prive di una reale concretezza negoziale, e poi naturalmente svela chi, secondo Pechino, è il reale responsabile della guerra: “La comunità internazionale”, che “deve agire con maggiore urgenza”, e smetterla di “marginalizzare la questione Palestina”. “La Cina continuerà a collaborare incessantemente con la comunità internazionale per raggiungere questo obiettivo”. La strategia dell’apparente neutralità cinese nei conflitti internazionali è stata già più volte messa alla prova nella guerra d’invasione della Russia contro l’Ucraina. Pechino ha bisogno di mostrarsi al mondo come un attore di pace e influente, vuole intestarsi il titolo di costruttore di pace globale a differenza dell’America e dei suoi alleati, che non cercano la pace ma solo gli interessi e il profitto. E’ un ribaltamento della realtà facilmente svelabile, ma che funziona bene nella propaganda esterna e che permette a Pechino di continuare a restare ufficialmente ai margini delle questioni internazionali e, allo stesso tempo, di lavorare per rafforzare una coalizione anti-occidentale. “Israele si aspettava una condanna più forte” dalla Cina, ha detto l’altro ieri Yuval Waks dell’ambasciata israeliana a Pechino: “Quando la gente viene ammazzata per strada non è il momento per chiedere la soluzione sui due stati”. Anche il leader della maggioranza del Senato degli Stati Uniti, Chuck Schumer, attualmente in missione a Pechino con una delegazione americana, l’altro ieri ha incontrato il leader Xi Jinping e ha affrontato la questione: ha detto di essere “deluso” dal fatto che il paese non abbia mostrato “alcuna compassione” per il popolo israeliano. “Abbiamo mille ragioni per migliorare le relazioni tra America e Cina”, ha detto Xi con fare oracolare, “e nessuna per peggiorarle”. Ma il metodo è sempre lo stesso, e basterebbe un esempio su tutti: come nei primi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, anche domenica scorsa i media cinesi hanno accuratamente evitato la macelleria di Hamas. Phil Cunningham su China Story ha analizzato il telegiornale serale della Cctv, noto come Xinwen Lianbo, dell’altro ieri: il servizio sulla guerra era firmato da un freelance palestinese a Gaza, che inizia mostrando i bombardamenti israeliani sul territorio e va avanti menzionando “alcuni missili” di Hamas su Israele e la dichiarazione di guerra da parte del governo. Il messaggio politico arriva dopo, quando la Cctv si concentra sulla mega portaerei americana Uss Ford diretta verso il Mediterraneo orientale a difesa di Israele: come per la copertura della guerra in Ucraina, scrive Cunningham, i filmati sono confezionati per condannare il supporto americano che “infiamma il conflitto”. Da anni ormai si parla dell’incessante sforzo diplomatico cinese per entrare come attore influente in medio oriente e proteggere i suoi sempre maggiori interessi nella regione. Pechino non ne ha le capacità, e si porta dietro un bagaglio importante quando tratta con i paesi della regione: la repressione della minoranza musulmana uigura nella regione dello Xinjiang. Ma questo non ha impedito a Pechino di stringere accordi di rilevanza strategica con l’Arabia Saudita – è appena iniziata un’esercitazione navale congiunta tra i due paesi incentrata sulle operazioni di antiterrorismo marittimo all’estero – e a metà marzo c’è stato il primo successo diplomatico di Pechino, che si è intestata l’accordo tra Iran e Arabia Saudita (negoziato in realtà già da tempo, e indipendentemente dal coinvolgimento cinese). Negli ultimi anni la Cina aveva intensificato le relazioni economiche con Israele, e il primo ministro Netanyahu era atteso a Pechino nelle prossime settimane. Dopo il primo summit fra Cina e stati arabi che si è svolto nel dicembre dello scorso anno, durante il quale il presidente Mahmoud Abbas aveva firmato l’ingresso della Palestina nella Via della seta cinese, il leader Xi Jinping aveva accolto Abbas a Pechino a giugno. Ma già allora, anche tra gli analisti della regione, c’era scetticismo su un contributo realistico da parte della Cina sulla questione. A Pechino piace la stabilità, perché è con quella che si fa profitto, non la pace e nemmeno lo sviluppo. Anche per questo è stata uno dei primi paesi a inviare un ambasciatore nella Kabul dei talebani, neanche un mese fa.
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